Le Alpi, il burnout e un gioco: perché ho amato Hinterberg
Non è il miglior gioco dell’anno. È quello che avevo bisogno di giocare.
Nel mondo della critica videoludica si parla spesso come se ci fosse un metro neutro e universale per valutare un gioco. Si fanno liste di pro e contro, si attribuiscono voti numerici, si confrontano frame rate e sistemi di combattimento — come se tutto questo fosse separabile dall’esperienza soggettiva di chi gioca.
Ma ogni elemento di un videogioco, dalla meccanica più astratta al paesaggio più dettagliato, è estetico1. E l’estetica, per quanto si tenti di imbrigliarla in criteri oggettivi, è fatta di occhi che guardano, di storie personali, di vissuti.
Il bello — in senso ampio, emotivo, estetico — è negli occhi di chi guarda. Non esiste una valutazione neutrale di un’opera artistica, perché ogni opera vive solo nel momento in cui incontra qualcuno che la interpreta.
È da qui che voglio partire: da un gioco che ho amato profondamente, non nonostante i suoi difetti, ma proprio per quello che mi ha dato, al di là di ogni misura tecnica. Quel gioco è Dungeons of Hinterberg.
Imperfetto, eppure essenziale
Parlare di Dungeons of Hinterberg in termini puramente videoludici sarebbe riduttivo. Potrei dirti che ha un sistema di combattimento piuttosto semplice, che alcuni dungeon si somigliano un po’ troppo, che il gioco non ha la profondità sistemica di certi titoli più “blasonati”. Ma non è lì che sta il punto. E non è per questo che l’ho amato.
Ho amato Hinterberg per l’atmosfera che riesce a evocare, per quel modo lieve e malinconico con cui racconta il bisogno di una pausa, di uno spazio altro. Perché quel villaggio incastonato tra le montagne non è solo un’ambientazione ben costruita: è un rifugio emotivo. Un luogo che non cerca di stupire con l’ambizione, ma che invita a rallentare, respirare, ascoltare.
C’è una delicatezza nel ritmo del gioco — fatto di esplorazione, incontri, piccoli riti quotidiani — che ho sentito profondamente mia. Non è un gioco che vuole metterti alla prova. È un gioco che vuole accompagnarti. E in un’epoca in cui molti titoli sembrano gridare per attirare l’attenzione, Dungeons of Hinterberg sussurra. A me ha sussurrato qualcosa che avevo bisogno di sentire.
La montagna come rifugio (anche per me)
C’è un motivo se ho sentito così forte Dungeons of Hinterberg. È perché, in fondo, parla anche di me.
Ogni anno, quando posso, scappo. Aspetto ottobre o gennaio, e con la mia compagna e la nostra canina ce ne andiamo sulle Alpi. Non è turismo. Non è avventura. È sopravvivenza emotiva. È il nostro modo di dire basta per un attimo, di prenderci una pausa dal rumore e dalla frenesia.
Il mio lavoro — di cui preferisco non dire troppo — mi porta a stare continuamente a contatto con altre persone. Relazioni, interazioni, richieste, presenze costanti. Una pressione fatta di volti e parole, che a lungo andare ti consuma. Le montagne, per me, sono l’antidoto. Il silenzio, la neve, le passeggiate nei boschi: tutto questo non è un’evasione dalla realtà, ma un ritorno a qualcosa di più calmo2.
Quando ho iniziato Dungeons of Hinterberg, ho riconosciuto subito quella tensione familiare: la protagonista che lascia tutto per rifugiarsi in un villaggio di montagna, cercando di ricostruirsi, di capire chi è lontano da tutto il resto. È un gesto che conosco bene. E non importa che il mondo di gioco sia fantastico o che ci siano dungeon da esplorare: quello che conta è il senso. Il bisogno. Il vuoto da colmare.
E quando il gioco mi lasciava vagare per quei sentieri innevati, incontrare personaggi tranquilli, scegliere con calma come passare la giornata… sentivo di essere lì. Non come un’evasione, ma come un ritorno. Come quando cammino davvero tra le vette, e tutto si fa più semplice: nessun rumore, nessuna corsa. Solo quiete, finalmente.
Fare finta, come da bambini
Un altro motivo per cui Dungeons of Hinterberg mi ha colpito è il modo in cui tematizza l’avventura non come eroismo, ma come gioco. La protagonista, mentre viaggia verso Hinterberg, racconta che da bambina sognava mondi fantastici, immaginava imprese e pericoli. Quello che cerca ora, da adulta, non è una prova di forza, ma una forma di continuità con quell’immaginazione infantile: un luogo in cui fare finta sia ancora possibile.
Questa idea mi parla nel profondo. Perché io, da videogiocatore, cerco esattamente questo. Voglio che il gioco sia una metafora dell’avventura, come quando da piccoli si trasformava un bastone in una spada, un prato in una giungla, un sasso in un tesoro sepolto. E non è infantilismo, è il contrario: è ricordarsi che la finzione, quando è consapevole, può essere uno spazio di libertà mentale enorme.
Nel mondo di Hinterberg, sconfiggere mostri e risolvere puzzle è diventato un’attività turistica. La protagonista può vivere la sua fantasia nella realtà — grazie a un mondo che ha integrato il fantastico nel quotidiano. Io invece lo faccio videogiocando, e va bene così. Lo schermo diventa la mia soglia. Ed è lì, dentro quel “fare finta”, che posso permettermi ancora una volta di cercare senso, avventura, possibilità.
Riscattare la soggettività
Tutti i giochi sono soggettivi. Non perché manchino di struttura o di tecnica, ma perché nessuna struttura ha senso al di fuori di chi la vive. La critica che pretende oggettività dimentica che un’opera d’arte — e i videogiochi lo sono — esiste solo nell’incontro con uno sguardo. Con una storia. Con un bisogno.
Dungeons of Hinterberg è un gioco con dei limiti, certo. Ma è anche un gioco che mi ha accolto in un momento in cui ne avevo bisogno. Mi ha ricordato il valore del silenzio, della fuga, dell’immaginazione. Mi ha permesso di “fare finta”, come da bambino, in un mondo che spesso mi chiede solo efficienza e presenza. Questo è tutto ciò che chiedo a un videogioco: che mi parli. Che mi accompagni. Che risuoni con qualcosa che è mio, e che magari, per un po’, mi aiuti anche a stare meglio.
Non esiste un criterio oggettivo per questo. E non deve esistere. Forse dovremmo imparare a scrivere di videogiochi — e in generale di arte — con meno distacco emotivo, senza pretesa di essere in grado di fare “analisi scientifiche”. Perché non c’è niente di più personale di ciò che ci fa stare bene.
La critica oggettiva è roba per infanti
Chi, una volta stabilito che il tasto B faccia fare una schivata al personaggio con 3 millesecondi di imput lag e 2 frame di invicibilità, sancisce se è brutto o bello? Chi sancisce che la cura per i dettagli in Red Dead Redemption 2 sia buona e/o “giusta”? C'è una formula matem…
Riesco talmente tanto a rilassarmi che a gennaio in una settimana mi sono letto ben tre libri, che bello!