C’è una definizione tecnica di open world che recita più o meno così: un videogioco in cui il giocatore può muoversi liberamente in un mondo virtuale di ampie dimensioni, con una struttura non lineare e una progressione che può essere parzialmente o completamente non vincolata. Ma c’è anche una definizione personale — meno precisa, più sfumata — che ha a che fare con il modo in cui mi sento mentre gioco.
Per me, un open world è tale quando riesce a farmi dimenticare l’obiettivo e a farmi inseguire una sensazione. Quando smetto di fare quello che “dovrei” fare e comincio a seguire ciò che mi incuriosisce. In questo senso, non tutti i giochi che si dichiarano open world lo sono davvero, almeno non secondo questa definizione esperienziale.
Freelancer: il primo seme
Il primo gioco che mi ha fatto sentire questa libertà è stato Freelancer. Uscito nel 2003, era tecnicamente uno space sim, con missioni, combattimenti e commercio spaziale. Ma quello che ricordo con più affetto è la sensazione di essere lasciato libero. L’universo di Freelancer non era infinito, ma sembrava tale. Mi piaceva decollare da una stazione spaziale e vagare senza una vera meta, intercettare trasmissioni, commerciare con qualche colonia marginale, magari incontrare pirati.
Non era propriamente un open world, ma aveva quella scintilla: la libertà di deviare, di non seguire la main quest, di “stare nel mondo” anche senza una missione attiva. Quella scintilla è diventata, con il tempo, il criterio con cui giudico l’open world come genere: la possibilità di perdersi con piacere.
Oblivion: la deviazione come stile di vita
The Elder Scrolls IV: Oblivion è stato il mio primo vero open world, almeno secondo le convenzioni del genere. È stato anche il primo gioco in cui la quest principale ha smesso di avere importanza quasi subito. Ogni volta che partivo in direzione della prossima tappa della trama, qualcosa mi distraeva: una rovina da esplorare, un personaggio con una richiesta strana, un paesaggio che volevo solo attraversare senza motivo.
Oblivion mi ha fatto capire che il mondo non è solo un contenitore per le quest, ma un invito costante a deviare. E che spesso è nella deviazione che si trovano i momenti più memorabili, quelli non scritti dagli sviluppatori ma generati dall’interazione fra spazio, possibilità e desiderio.
Shadow of the Colossus: il vuoto come racconto
Poi è arrivato Shadow of the Colossus, e ha cambiato tutto. Qui l’open world non è un luogo pieno di cose da fare, ma un luogo pieno di vuoto. Le Terre Proibite sono quasi spoglie: non ci sono città, NPC, mercati, crafting o punti di interesse marcati. Eppure ogni angolo sembra portatore di significato.
Lì ho capito che il vuoto può essere una forma di racconto. Che anche il silenzio, l’attesa, il paesaggio non interattivo possono parlare, se il giocatore è disposto ad ascoltare. Shadow mi ha insegnato a esplorare per il solo gusto di esserci, per il desiderio di attraversare. È stato il mio primo incontro con l’idea di “esplorazione alla deriva” — un approccio non finalizzato, dove la meta non è importante quanto il cammino.
Breath of the Wild: la meraviglia come sistema
Tutto questo ha trovato la sua piena maturazione in The Legend of Zelda: Breath of the Wild. È, senza esitazioni, il mio gioco preferito. Non per la trama, non per il combattimento, ma per come riesce a rendere la curiosità un meccanismo ludico. È come se il mondo stesso fosse progettato per essere interrogato: “Cosa c’è dietro quella collina? E in cima a quella montagna? Perché quel sasso è messo così?”.
In Breath of the Wild l’esplorazione è sempre premiata, ma non nel senso convenzionale di loot o XP. È premiata con rivelazioni geografiche, scoperte topologiche, connessioni visive e percettive. È un gioco che abbraccia appieno la pseudogeografia: una geografia del mondo costruita non tanto su coordinate e distanze, quanto sull’esperienza sensoriale del muoversi nello spazio.
Giocare a Breath of the Wild significa cedere a un’esplorazione alla deriva che però non è mai sterile. È un vagabondare che produce conoscenza del mondo e della sua logica interna. Un mondo che non ti chiama da un punto specifico, ma da ovunque.
Sable, e altri figli di Breath of the Wild
Esistono giochi che hanno raccolto l’eredità di Breath of the Wild e ne hanno fatto una poetica.
Sable è uno di questi. È un gioco che premia l’esplorazione in quanto tale, che non ti spinge verso la main quest ma ti lascia spazio per vagare, per ascoltare il mondo, per scoprire la sua cultura attraverso i resti e gli incontri. È un mondo che non urla, ma sussurra.
Sable è costruito attorno all’idea di deriva, sia narrativa che spaziale. Non c’è combattimento, non c’è una pressione costante del tempo, non c’è urgenza. È un gioco che ti chiede solo di esserci. Di essere presente. Di attraversare.
Come Breath of the Wild, Sable crede che la curiosità sia sufficiente a muovere il giocatore. Non serve ricompensa, se il mondo è interessante abbastanza da giustificare la camminata.
Outer Wilds è un capolavoro di design sistemico e narrativo, un gioco che ti lancia in un microcosmo esplorabile e lo lascia letteralmente al tuo senso di meraviglia. La progressione non avviene tramite potenziamenti o equipaggiamento, ma solo attraverso la conoscenza. Ogni pianeta, ogni rovina, ogni strano evento cosmico è un tassello di un puzzle più grande. È un gioco che non ti dice mai dove andare, ma che riesce sempre a suggerirti che c’è qualcosa da scoprire. Esattamente come Breath of the Wild, ti senti guidato dalla tua stessa curiosità. Ma con una posta in gioco diversa: qui esplori per capire, non per crescere.
Poi c’è Biomutant. Un gioco imperfetto, senza dubbio. Ma che merita, almeno in parte, una menzione positiva. Non per la scrittura, non per la coerenza del mondo, ma per una cosa fondamentale: il movimento. Muoversi nel mondo di Biomutant è piacevole. Salti, scatti, planate: l’avatar risponde con agilità e leggerezza, creando quella connessione diretta tra corpo e spazio che era così riuscita in Breath of the Wild. È un gioco che, almeno per un po’, ti invoglia a esplorare non perché ti premi, ma perché è bello farlo. E questo, per me, è già moltissimo
I confini della narrazione nell’open world
A questo punto vale la pena soffermarsi su un nodo critico: quello della narrazione. Gli open world hanno un problema strutturale con la narrazione, o meglio, con il tentativo di raccontare una storia forte, lineare, drammatica, all’interno di un contesto che per sua natura resiste alla linearità. Se stringi troppo le maglie per far passare la narrazione, rischi di sacrificare proprio ciò che rende l’open world speciale: la libertà, la deriva, la scoperta non prevista. Ma se lasci che il giocatore vada davvero dove vuole, quando vuole, la storia rischia di sfilacciarsi, di perdere potenza, ritmo e coerenza.
Red Dead Redemption 2: un equilibrio instabile
Red Dead Redemption 2 è forse il miglior tentativo di conciliare narrazione ed esplorazione. Il mondo è vastissimo, pieno di vita, curato nei minimi dettagli. Ma è anche fortemente narrativo, e quella narrazione — lunga, articolata, cinematografica — riesce a convivere con l’esplorazione in modo sorprendentemente armonico. Non sempre perfetto, ma spesso convincente. Riesce perché integra la narrazione nel ritmo del mondo. Arthur Morgan non è solo un avatar, è un personaggio scritto, e il modo in cui esplora, caccia, interagisce con il mondo riflette — o può riflettere — il suo arco narrativo. Esplorare non è mai solo meccanico: è un atto che può avere peso emotivo. Red Dead Redemption 2 è uno dei pochi giochi in cui andare a pescare sul fiume o cavalcare nella nebbia può avere lo stesso valore di una missione della main quest. Ma è un equilibrio fragile, e in certi momenti la struttura aperta e quella narrativa sembrano cozzare.
Death Stranding: quando il gameplay è tutto
Death Stranding è un altro caso complesso. È un open world che, a livello di gameplay, ho amato. Perché anche qui, l’esplorazione è il fulcro. Muoversi nello spazio, pianificare una traversata, consegnare qualcosa: ogni gesto ha peso, ogni passo è meditato. In un certo senso, Death Stranding è un gioco sull’attraversamento — e questo lo avvicina a quella che chiamo filosofia dell’esplorazione alla deriva. Ma sul piano narrativo, per me fallisce. Non perché manchi di ambizione, anzi. Ma perché la storia risulta sfilacciata, discontinua, troppo spesso scollegata da ciò che il giocatore sta realmente facendo. Il mondo è strano e intrigante, ma anche incredibilmente silenzioso, e quando la narrazione arriva — nei momenti scriptati, nei filmati — sembra piombare dall’esterno. Non emerge dal mondo, lo invade. E così, invece di integrarsi con l’esperienza, la disturba.
La tensione irrisolvibile
Gli open world sono spazi di possibilità. Sono territori che, se ben progettati, sanno premiare il giocatore che si lascia guidare dalla curiosità, dall’istinto, dalla voglia di vedere cosa c’è dopo l’orizzonte. Ma questa libertà ha un costo. E quel costo è spesso la coerenza narrativa.
Per me, l’open world perfetto non è quello che cerca di raccontare una storia epica, ma quello che costruisce un mondo che valga la pena esplorare. Un mondo che parla con la geografia, con l’atmosfera, con il silenzio. Un mondo che non ha bisogno di dire troppo, perché sa farsi scoprire. A volte, il modo migliore per raccontare una storia è non raccontarla affatto — ma lasciare che sia il giocatore a scriverla, passo dopo passo, deriva dopo deriva.
Open world “occupati”: il limite del contenuto
A questo punto vale la pena parlare anche degli open world che sembrano, almeno sulla carta, più “grandi”, più “ricchi”, più “completi”. Giochi come The Witcher 3 o Horizon Zero Dawn (e il suo seguito Forbidden West) sono spesso citati come esempi eccellenti di open world — e lo sono, da un punto di vista produttivo e contenutistico. Ma c’è un problema: non mi invitano a perdermi. O meglio, mi permettono di farlo, ma non mi motivano davvero a farlo. La struttura di questi giochi è profondamente legata alla logica della quest: ogni scoperta è una subroutine del sistema di progressione. Ogni luogo è progettato per contenere qualcosa da fare. L’esplorazione non è un atto autonomo, ma una meccanica subordinata all’avanzamento.
In questi giochi, l’open world è spesso un contenitore troppo pieno. Non c’è silenzio, non c’è vuoto, non c’è tempo per domandarsi “perché sono qui?”. Tutto è già previsto, già scritto, già segnalato. E così finisco per giocare seguendo il GPS, andando da un punto all’altro per completare check-list. Sono giochi vasti, ma non larghi. Ricchi, ma non liberi.
A volte mi chiedo se abbia davvero senso che siano open world. Non basterebbero ambientazioni semi-aperte, hub interconnessi? Il loro essere “aperti” sembra più una scelta estetica o commerciale, che una necessità ludica.
Tears of the Kingdom: quando la deriva si perde
Dopo Breath of the Wild, le aspettative per il suo seguito erano altissime. Anch’io aspettavo Tears of the Kingdom con impazienza, sperando in un’espansione di quella poetica dell’esplorazione che avevo tanto amato. Invece, mi sono trovato davanti a un gioco molto diverso, che non parlava più lo stesso linguaggio.
Tears of the Kingdom ha spostato il fulcro dell’esperienza dalla deriva all’invenzione. Non più un mondo da esplorare con stupore, ma un set di strumenti da combinare per superare ostacoli, risolvere puzzle, costruire marchingegni. È una celebrazione della sperimentazione ludica, certo, ma per me profondamente deludente. È venuta meno quella scintilla che rendeva Breath of the Wild speciale: il vagare senza scopo apparente, il camminare per pura curiosità, il mondo che ti chiama senza urlare. E poi c’è il problema del déjà vu. Il mondo di gioco è in gran parte lo stesso. Stesse montagne, stessi villaggi, stessi sentieri. Cambia la superficie, ma il cuore resta immutato — e questo toglie molto dell’incanto che aveva accompagnato il primo viaggio. L’esplorazione non sorprende più.
Il sottosuolo, introdotto come grande novità, non ha saputo colmare quel vuoto. Troppo uniforme, troppo facile da padroneggiare una volta compreso il suo loop. Non c’è mistero, non c’è varietà. È una distesa oscura che perde presto la capacità di affascinare.
Le isole del cielo, paradossalmente marginali, sono state l’unica vera gioia. Piccole, frammentate, rare: ma capaci di evocare quella leggerezza, quel senso del possibile che avevo trovato in Breath of the Wild. Mi sarebbe piaciuto che il gioco fosse costruito intorno a quelle isole, e non al bricolage terrestre.
In definitiva, Tears of the Kingdom è un gioco che ho trovato profondamente deludente. Non solo perché ha rinunciato alla deriva in favore del sistema, alla scoperta in favore della costruzione, ma perché ha dimenticato cosa significava perdersi. E, per me, è proprio lì che l’open world trova il suo senso.
Meno è mondo
La mia idea di open world è cambiata molto nel tempo, ma oggi posso dire che quello che cerco non è la grandezza, né la densità, né la varietà. È lo spazio per perdermi. Il tempo per rallentare. La libertà di seguire un’ombra sul terreno o un suono in lontananza.
Per me, l’open world ideale non è quello che mi dice cosa fare, ma quello che mi chiede cosa voglio fare. E quando la risposta è “non lo so”, mi invita comunque a partire.
Conclusione: scegliere dove andare
Ripensando a tutti questi mondi che ho attraversato, mi accorgo che ciò che cerco davvero in un open world non è la vastità, né la varietà, né il numero di missioni disponibili. Quello che cerco è un certo tipo di libertà: non tanto la possibilità di andare ovunque, ma il desiderio autentico di farlo. Un mondo che mi inviti a deviare, che mi ricompensi non con oggetti ma con intuizioni, che non mi dica sempre dove andare ma mi chieda: “perché sei qui?”.
Gli open world che preferisco non sono quelli che mi riempiono di cose da fare, ma quelli che mi danno il tempo e lo spazio per ascoltare. Che sanno che la meraviglia non si progetta, ma si suggerisce. Che permettono alla curiosità di essere motore, e non soltanto deviazione dalla rotta principale.
In questo senso, l’open world non è un genere, ma una possibilità: quella di creare un mondo che valga la pena abitare anche senza obiettivi, anche senza urgenze. Un mondo che ti permetta di perderti, e nel farlo, forse, di trovarti.
Il concetto di esplorazione sensoriale non si chiamava piscogeografia? (Ricordo un video di Gekugemu in merito). In pratica da quel che capisco sto tuo articolo, un open world è tanto più fedele alla sua definizione originale quanto viene meno il suo essere "gioco", con obiettivi, quest, narrazione in senso classico (con un protagonista, una storia che si sviluppa, una conclusione)...mi sembra quanto meno bizzarro, forse è più logico un simulatore di mondi, che non un open world in senso videoludico.