Critica alla critica di Wes Anderson (Asteroid City)
La ricerca del senso dell'insensatezza
Prologo
Wes Anderson è un regista che divide tanto, c’è chi lo ama (anzi, chi lo ha amato) e chi lo detesta, e il motivo principale è incredibilmente lo stesso: il suo stile. Non si possono criticare i gusti soggettivi delle persone e, quindi, lasceremo da parte chi detesta il regista per il suo stile artificioso e riconoscibile, mentre mi soffermerò su chi amava Wes Anderson (pre French Dispatch e Asteroid City). Io, personalmente, adoro questo regista, anche le sue ultime opere, ma ora comincio a chiedermi: perchè lo amo? Per il suo stile?
Quando sento parlare gli (ex)estimatori di Wes Anderson si parla sempre delle sue simmetrie, dei suoi colori pastello, delle prove recitative quasi astratte da parte delle star di hollywood, e difficilmente ci si sofferma su quello che c’è sotto, dietro tutta la patina e lo stile. Wes Anderson sembra il regista preferito di chi ama avere un bel profilo instagram. Insomma anche chi lo ama(va), lo ama(va) superficialmente.
Sono io un superficiale? Mi piace veramente Wes Anderson per il suo stile super riconoscibile o c’è altro? Veramente le sue opere sono vuoti contenitori stilosi? Eppure alcune scene mi sono rimaste nella testa, mi hanno commosso, ogni volta che riguardo quel film e arrivo a quella scena, sento qualcosa dentro di me rompersi e non riesco a non emozionarmi. Questi personaggi che sembrano delle macchiette, quasi degli automi privi di anima, che recitano in maniera monocorde riescono sempre a lasciarmi qualcosa. Ma perchè? Probabilmente Asteroid City è riuscito a rispondermi. In questo film il regista si pone (anche) le mie stesse domande e non vi trova una risposta, nemmeno lui stesso riesce a interpretare la sua arte, ma forse io ci ho trovato il mio senso.
Svolgimento
In realtà le opere di Wes Anderson sono intrise di umanità, i momenti migliori dei suoi film sono la condivisione di certe esperienze (anche traumatiche) da parte dei protagonisti. Il riuscire a non sentirsi più soli perchè qualcuno ti mette una mano sulla spalla, perchè qualcuno saluta con te l’essere della tua fobia, perchè qualcuno riesce a ricevere un tuo abbraccio. Di fronte al mistero della vita non siamo soli, anche di fronte al non senso dell’esistenza e alla nienteità possiamo accogliere e farci accogliere dall’altro.
Wes Anderson per me è un poeta del nichilismo.
Dietro tutti i colori pastello, le scenette buffe, i personaggi bizzarri e le simmetrie c’è un tentativo frustrato di mettere in ordine il caos che è la nostra esistenza. Esattamente come la società ci imbriglia in comportamenti decodificati, allo stesso modo il regista texano cerca di imbriagliare il caos e il vuoto esistenziale dietro uno stile eccessivo e maniacale.
Asteroid City parla proprio di questo: di attori (sceneggiatori e registi) alla ricerca di un senso. L’elaborazione del lutto avviene attraverso l’arte, anzi attraverso una scena tagliata, come se una castrazione artistica fosse riuscita a ricucire quella castrazione esistenziale che il personaggio principale cercava di superare. Un senso che, però, allo spettatore non viene spiegato fino in fondo, tutte le metafore e le ricerche di senso all’interno del film non vengono mai spiegate al pubblico perchè sono personali, come se fossimo invitati noi stessi a partecipare al gioco dell’attribuzione dei significati. Siamo noi stessi quindi che diamo un senso alle nostre esistenze, un qualcosa di personale che è difficilmente condivisibile.
Mi sembra che il motivo per cui Asteroid City non sia piaciuto è la ricerca di senso da parte dello spettatore in tutte le opere. La ricerca dello spiegone, del rimettere in ordine le nostre vite e la rinuncia all’impegno (interpretativo). Una sorta di regressione al positivismo1 in cui si cerca di dare un senso a tutto, se non addirittura pretendere un senso da tutto.
Questa visione non può che essere frustrata dall’ultimo film di Wes Anderson il cui significato ultimo è che non c’è un senso di per sè alla vita (o esistenza, chiamatela un po’ come volete) e che l’arte non serve -sempre- per dare risposte. Come possiamo, quindi, pretendere una qualche risposta da un regista che sembra non averne?
Durate la nostra vita creiamo dei vuoti dentro di noi, un dramma o un trauma ce lo avranno causato, e tenderemo a metterli in mostra rendendoli parte della nostra personalità o a nasconderli sotto una metaforica sabbia dopo un rito sabbatico. Solo i bambini riescono, quindi, a essere ancora puri e completi e a continuare la ricerca di senso, non è un caso se nei film di Wes Anderson solitamente i bambini stessi sono più adulti dell’adulto che, oramai disilluso, ha smesso di cercare e si è incancrenito in una macchiettistica parodia della vita, affetto da una melanconia cronica. Una melanconia che può essere spazzata via solo aprendosi all’altro, sbirciando dentro le finestre metaforiche degli altri alla ricerca di quei vuoti che possono diventare accoglienti. E quindi le inquadrature simmetriche e regolari che sembrano finestre che ci permettono di spiare nella vita degli altri e, forse, di empatizzare con loro assumono un significato più profondo che va al di là di un mero esercizio di stile. La stessa simmetria e precisione, tipica dello stile di Wes Anderson, non è altro che un tentativo di mascherare e imbrigliare il vuoto esistenziale di questi personaggi melanconici.
Il vuoto esistenziale è la caratteristica principale per poter accogliere l’altro. Privi di noi stessi, quasi afoni, saremo pronti a ricercare un senso. Finalmente svuotati, vacui, avremo elaborato tutti i nostri traumi e saremo pronti a vivere.
I film di Wes Anderson sono pieni di emotività. L’incapacità di empatizzare o a rivedersi con e nei personaggi del regista texano è perchè questi umani sono unici, già con delle loro storie, non sono lì per farci vivere una storia ma per raccontarci la loro, magari completamente estranea alla nostra sensibilità. Nell’epoca del conformismo non è facile rivedersi nell’altro, per questo vanno tanto di moda i meme “literally me”2. Non mi stupisco, quindi, che di Wes Anderson colpisca la parte più superficiale, quella rivendibile e imitabile sui social.
Il pubblico è un alieno che viene “ruba” l’opera all’artista proprio da sotto il suo naso e poi torna a restituirla, catalogata, senza nemmeno fermarsi per mettersi in posa come aveva fatto in precedenza, così prima gli era stato possibile essere sbattuto in prima pagina, mentre ora, quando c’è da fare analisi profonde, si nasconde, si vergogna, preferendo surfare sulla superficialità, e all’artista di lui non frega (forse) più nulla.
Bisognerebbe fare come Steve Zissou e aspettare fuori mentre proiettano la nostra vita.
Epilogo
Nell’ultimo periodo ho letto tanto di buddismo zen, non sono diventato improvvisamente buddista, ma ho trovato, all’interno di questa dottrina filosofica, una visione del mondo che abbraccia la mia e che molto spesso collima. Il disimpegno, l’ambizione all’anonimato, la rinuncia al cercare e l’impossibilità di trovare mi sembrano tutte tematiche, tra l’altro, comuni alla poetica di Wes Anderson. Nichilismo e buddismo solitamente coincidono, potremmo dire che le basi di partenza sono quasi le stesse, ma il buddismo zen (ndr) ha la forza del sorriso e della leggerezza.
Allo stesso modo il regista texano mi sembra affrontare il nichilismo con un certa leggerezza e, anche nei suoi momenti più malinconici, c’è sempre un retrogusto di dolcezza. L’accettazione del non senso, dell’insignificanza, di noi come persone non arriva mai per imposizione, ma è un percorso, è una crescita che porta a una de-interiorizzazione pronta per accogliere l’altro. Tutti i personaggi (principali) dei film di Wes Anderson troveranno nell’altro la loro ragione d’essere.
Se Mr Fox non riusciva ad accettare la sua nuova vita, dovrà fare i conti con i suoi sbagli e la paura di perdere le persone amate per poter finalmente accettare il suo posto nel mondo, che non era quella del Fantastico ladro Mr Fox e tanto meno quello del padre di famiglia che lavora legalmente, ma il posto che gli permetteva di stare accanto ai suoi cari. La vittoria della contentezza sulla felicità.
E quindi, caro Wes, se non hai capito il senso della vita, forse sono riuscito a estrapolarlo io dalle tue opere. Il senso della vita è: l’altro3.
Non a caso vanno tanto di moda i film e le serie con i detective (e i supereori che sono una sorta di detective più fighi) che risolvono squarci nella realtà, i crimini, per rimettere ordine e ricucire quel velo di Maya squarciato dallo straordinario
Vi rimando a questo bellissimo video:
Ovviamente si scherza (ma nemmeno troppo), chi è così idiota da dare per certo il senso universale della vita?