Cos'è un videogioco di ruolo?
E ha senso parlare di gioco di ruolo nei videogiochi?
La stesura di questo articolo tiene nota di questo paper, intitolato: Building the character: Imagined consciousness in roleplaying videogames.
Inizialmente, inoltre, questo articolo sarebbe dovuto essere uno script per youtube, ma non ho la capacità di montare e tanto meno una dizione degna per un video del genere.
Questo articolo è uscito anche su Silicon Arcadia, purtroppo non ci sono i commenti e a me piace quando mi commentate ergo l’ho ripubblicato anche qui
Introduzione
Il termine gioco di ruolo (RPG) nei videogiochi designa un genere ampio contraddistinto da storie dettagliate e sviluppo del personaggio, spesso legato a livelli ed abilità. Nato dall’adattamento dei GDR cartacei (come Dungeons & Dragons) ai computer, ha ereditato terminologia, ambientazioni e meccaniche simili. Oggi però l’etichetta “RPG” è applicata con grande elasticità, tanto che include sia avventure strategiche con personaggi personalizzabili sia sparatutto con qualche statistica. Conviene dunque chiedersi: che cosa vuol dire oggi chiamare un videogioco “gioco di ruolo”? Ha ancora senso?
Molti RPG moderni (dai classici occidentali come Baldur’s Gate o Fallout ai grandi JRPG come Final Fantasy e Dragon Quest) hanno differenze formali ma elementi comuni: protagonisti costruiti dal giocatore (per quanto riguarda i WRPG), crescita numerica (attributi, livelli), scelte morali o narrative (sempre per quanto riguarda i WRPG), e un certo grado di libertà (agency) nel mondo di gioco. Tuttavia, la distinzione tra “ruolo” e “azione” si sfuma quando ogni gioco introduce qualche caratteristica RPG. La domanda sul senso dell’etichetta rimane aperta: richiede di capire cosa significhi “ruolare” su due fronti diversi – il gioco cartaceo tradizionale e il medium digitale – e quali siano i criteri strutturali essenziali di un vero RPG virtuale.
1. Criteri strutturali di un GdR videoludico
I giochi di ruolo (RPG) si distinguono per progressione statistica e sviluppo del personaggio. In genere essi derivano dai GdR cartacei: infatti la maggior parte dei videogiochi di ruolo assegna statistiche e livelli al personaggio. Ad esempio è normale avere schermi con punti ferita, punteggi di attributi (forza, destrezza, carisma, ecc.) e un livello che cresce guadagnando esperienza. Questo sistema di progressione numerica (XP → level up) è diventato il cuore del genere: motiva il giocatore a perseguire obiettivi e ad aumentare le proprie abilità. Inoltre molti RPG mettono al centro la personalizzazione sistemica del personaggio: il giocatore può scegliere razza, classe o archetipo e destinare punti abilità in diverse statistiche. Queste scelte influenzano il gameplay (ad es. abilità di combattimento, magie, capacità sociali), conferendo coerenza alla progressione.
Un altro criterio fondamentale è l’agency del giocatore nelle scelte narrative. Nei classici GdR, solitamente, la trama non è preconfezionata: le decisioni del giocatore (dialoghi, allineamento morale, ramificazioni) influenzano il mondo di gioco. Ad esempio Mass Effect viene citato per la sua alta agency: puoi decidere il destino dei personaggi e quali informazioni rivelare, influenzando la storia sia nel breve che nel lungo termine. In un RPG, solitamente, il mondo reagisce alle azioni del giocatore, modificando missioni e finali, il che rafforza l’idea di “interpretare un ruolo”. Questo si riallaccia alle origini del genere: i videogiochi di ruolo usano molto della narrazione e dello sviluppo dei personaggi tipici dei GdR da tavolo.
In sitesi possiamo dire che gli elementi essenziali di un videogioco di ruolo sono il livellamento del personaggio giocante, la presenza di parimetrie e un’agency marcata da parte del giocatore sulla narrativa o sul mondo di gioco (più sotto distingueremo GdR world-driven da quelli quest-driven).
2. RPG occidentali vs giapponesi (WRPG vs JRPG)
È necessario parlare subito delle differenze tra WRPG e JRPg per tagliere fuori da tutto il discorso successivo i giochi di ruolo di stampo orientale1.
Le differenze tra RPG occidentali (WRPG) e giapponesi (JRPG) non si riducono alla mera provenienza geografica, ma riflettono due filosofie radicalmente diverse nel concepire il ruolo, la progressione, il rapporto con la narrazione e l’agency del giocatore. Gli RPG occidentali tendono a offrire mondi reattivi, avatar personalizzabili e approcci multipli, mentre i JRPG spesso propongono storie lineari con protagonisti prestabiliti, dove l’interazione è più limitata e la crescita del personaggio segue schemi preordinati.
Nei WRPG, il giocatore costruisce il proprio alter ego: può scegliere razza, classe, aspetto, caratteristiche e spesso anche orientamento morale. L’identità è definita durante il gioco da scelte morali, relazioni con il mondo e strategie di gameplay. Serie come The Elder Scrolls, Fallout o Dragon Age incarnano questo approccio, in cui la libertà è centrale: puoi ignorare la quest principale, puoi diventare un assassino o un paladino, un diplomatico o un selvaggio. Anche Mass Effect (pur con protagonista fisso) adotta molte dinamiche WRPG grazie al sistema di scelte e reputazione. La progressione è spesso aperta: skill-tree ramificati, sistemi di perk, build diverse. Il mondo si adatta al giocatore – non il contrario.
I JRPG, invece, sono spesso focalizzati su un racconto predeterminato con protagonisti narrativamente forti: Cloud, Tidus, Crono, il protagonista di Persona. Qui il giocatore non interpreta un ruolo, ma accompagna un personaggio scritto da altri. Le scelte sono poche e raramente cambiano il destino della storia. Il gioco si concentra sullo sviluppo emotivo e relazionale del party, spesso attraverso dialoghi scritti e scene pre-scriptate. Il gameplay ruolistico si esprime più nel combattimento tattico a turni, nella gestione dell’equipaggiamento o nel grinding, che non nella possibilità di forgiare un’identità personale. Le storie sono quasi sempre lineari (con qualche biforcazione narrativa), e la libertà di esplorazione o interpretazione è subordinata alla regia autoriale. La “partecipazione” del giocatore è più da spettatore attivo che da co-autore.
Nel mezzo tra queste due visioni si colloca un caso particolare e importantissimo: Dark Souls. Pur essendo sviluppato in Giappone da FromSoftware, Dark Souls si distacca radicalmente dai codici tipici del JRPG. L’approccio è decentralizzato dalla trama: il mondo è “aperto”, interconnesso, criptico. Il protagonista è anonimo, senza voce, senza storia – lo costruisci tu, sia a livello di build (classe, attributi, equip) sia a livello simbolico. La lore non è raccontata ma suggerita, e spetta al giocatore ricomporla con l’esplorazione e la deduzione, esattamente come avviene nei WRPG sandbox. La difficoltà brutale e l’assenza di guida rafforzano il senso di immersione e agency: non ci sono tutorial invasivi, indicatori, missioni chiaramente marcate – sei gettato nel mondo, come in Morrowind, e devi capirlo da solo. L’interazione col mondo avviene principalmente attraverso il gameplay, non tramite dialoghi o scelte testuali. Anche il PvP e la componente online asincrona (messaggi, invasioni, cooperazione) amplificano l’esperienza come “simulazione di ruolo” emergente. Per questi motivi, Dark Souls è spesso considerato più vicino ai WRPG che ai JRPG classici, e anzi ha avuto un’influenza decisiva sul design occidentale contemporaneo, ispirando decine di “Soulslike” che hanno preso in prestito le sue strutture.
WRPG e JRPG differiscono non tanto per meccaniche, ma per intenti narrativi e per come concepiscono il ruolo del giocatore: co-autore vs testimone. E Dark Souls, pur nascendo in Giappone, si schiera concettualmente col primo gruppo, confermando che “gioco di ruolo” è una categoria culturale prima ancora che geografica (altro esempio la serie Dragon’s Dogma, nonostante sia una serie videoludica di casa Capcom, rientra di diritto nella definizione di WRPG).
3. Differenze tra RPG “quest-driven” e “world-driven”
Narrazione e storytelling
Nei GdR quest-driven la trama principale è in primo piano: il mondo di gioco è costruito attorno a una serie di missioni lineari prestabilite che guidano il giocatore attraverso atti narrativi precisi. Ad esempio The Witcher 3 gestisce la sua storia con quest lineari organizzate in quattro fasi, mentre molte quest secondarie (contratti da witcher, ricerche di tesori, ecc.) fungono da micro-narrazioni opzionali. Di contro, nei GdR world-driven la trama non è imposta dal gioco ma emerge dalle interazioni con il mondo: la narrazione complessiva si costruisce dai sistemi di gioco (routine NPC, fazioni in guerra, eventi casuali) piuttosto che da script prefissati. Ad esempio, la tecnologia “Radiant” di The Elder Scrolls permette agli NPC di seguire obiettivi generali (come “mangia a questo tavolo alle 2 PM”) senza script individuali e genera quest dinamiche basate sul comportamento del giocatore. In sintesi, solitamente, nei mondi quest-driven le storie sono “localizzate” nei singoli archi di missioni scritti dagli autori, mentre nei mondi world-driven emergono dagli eventi del mondo stesso2.
Introduzione del giocatore e immersione nel mondo
Nei giochi quest-driven l’introduzione del giocatore è spesso guidata in modo esplicito dalla narrazione. Ad esempio viene mostrata una scena cinematica introduttiva o si parte con un insieme di missioni tutorial strettamente lineari, e il sistema di gioco utilizza mappe, segnalini e un diario di missioni per indicare chiaramente gli obiettivi. Questo approccio aiuta il giocatore a immedesimarsi rapidamente nella storia ma impone un percorso definito. Nei mondi world-driven, invece, il giocatore viene spesso “buttato” nell’universo di gioco con poche istruzioni: non ci sono icone di missione su mappa né indicatori di percorso precostituiti. Ad esempio, Outward elimina volutamente il marker sulla mappa e persino le indicazioni delle città, costringendo il giocatore a orientarsi da solo. Questo metodo aumenta la sensazione di esplorazione libera e la sfida immersiva, ma significa anche minore orientamento iniziale e nessuna risposta immediata del gioco su “cosa fare dopo” senza consultare le meccaniche del mondo.
Quest-driven: forte guida narrativa iniziale (cutscene/tutorial), utilizzo di marker, obiettivi chiari.
World-driven: libertà dalla guida esplicita, nessun marker o etichetta obbligatoria (es. Outward richiede che il giocatore si orienti tramite metodi propri). L’immersione nasce dall’interazione diretta con l’ambiente e le meccaniche (clima, sopravvivenza, routine NPC) piuttosto che da indicazioni narrative preconfezionate.
Attività secondarie, esplorazione, libertà e progressione
Quest-driven: le attività secondarie sono missioni pre-scritte dai designer. Oltre alla storia principale, il gioco propone numerose quest opzionali (contratti, missioni di popolazione, cacce al tesoro) con narrazioni proprie. Queste offrono ricompense e approfondiscono il contesto, ma restano “entità teatrali” inserite dal design. L’esplorazione è incoraggiata soprattutto per scovare queste quest: si visitano villaggi e dungeon costruiti per ospitare contenuti narrativi. La libertà di scelta del giocatore è relativamente limitata alla sequenza in cui affronta questi incarichi, e la progressione del personaggio (esperienza, livello) procede principalmente completando missioni.
World-driven: le attività emergono dall’ecosistema di gioco. Possono essere scontri casuali, scoperte di risorse o obiettivi generati algoritmicamente (ad es. Skyrim genera nuove missioni legate alle azioni del giocatore). L’esplorazione diventa fine a sé stessa: il giocatore visita liberamente ogni angolo perché il mondo è vivo e ricco di sorprese, non perché lo guida il narratore. Di conseguenza, la libertà di scelta è massima: è possibile ignorare interamente qualsiasi “trama principale” (se presente) e creare storie personali. Anche la progressione è “sandbox”: il personaggio migliora le proprie abilità (esattamente come nella serie di The Elder Scrolls) combattendo, cacciando o contrattando, non solo svolgendo quest predefinite.
Design del mondo, intelligenza artificiale ed eventi dinamici
Nei giochi quest-driven il mondo è progettato come un palcoscenico per la narrazione: l’ambientazione è spesso pensata attorno a location chiave e sfide integrate nella trama. L’IA degli NPC può essere elementare o basata su routine semplici, perché molti comportamenti emergono solo quando si attivano determinate missioni. Anche gli eventi dinamici sono per lo più innescati da punti scriptati della storia (ad es. un assedio o un evento importante avviene al completamento di una quest). Nei mondi world-driven, al contrario, il design mira a creare un ecosistema interattivo. Ad esempio, il sistema Radiant AI in Skyrim permette agli NPC di eseguire azioni come mangiare o lavorare senza avere uno script specifico, rendendo il mondo molto più vasto e “organico”. Fazioni, economia e ciclo giorno-notte con attività degli NPC annesse sono simulati attivamente: possono verificarsi battaglie fra fazioni o invasioni improvvise indipendentemente dalle scelte del giocatore. In sintesi, quest-driven punta sulla regia a mano del narratore, mentre world-driven punta sulla complessità dei sistemi di gioco.
Esempi concreti
The Witcher 3 (CD Projekt): esempio tipico di RPG quest-driven. Tutta l’esperienza gira intorno a catene di quest lineari con personaggi e trama scritti, sebbene affiancati da numerose quest secondarie di contorno. Anche Gothic (Piranha Bytes) rientra in questo modello: presenta una storia principale ben definita, sebbene passi inaspettati (come andare in miniera subito) non impediscano il proseguimento. ELEX ( semopre Piranha Bytes) segue una formula simile, con un mondo aperto ma dominato da una narrazione centrale e da missioni legate alle fazioni.
The Elder Scrolls (Bethesda): spicca come RPG world-driven. Oltre a una trama principale opzionale, il gioco enfatizza l’esplorazione libera, routine NPC complesse ( in Skyrim c’è stata anche l’aggiunta di missioni procedurali, chiamate quest-radiant per darsi un tono). Mount & Blade: Warband (TaleWorlds) è un paradigma sandbox: il gioco è “open world” e non presenta alcuna storia predefinita. Il giocatore sceglie se fare carriera come mercenario, signore di guerra o altro, e la storia personale si genera dal semplice fatto di guidare eserciti, commerciare e combattere. Altri esempi world-driven includono Kenshi e Outward, dove non esiste un percorso narrativo prestabilito e il giocatore crea le proprie avventure interagendo con sistemi di sopravvivenza e fazioni emergenti. Questi titoli mostrano come libertà di esplorazione e interazione dinamica portino a storie uniche in ogni partita.
La differenza sostanziale sta nel modo in cui il progresso del personaggio è integrato nella narrazione. Nei giochi quest-driven (ad es. The Witcher 3) l’avanzamento di livello dipende dal completamento delle missioni: il protagonista guadagna esperienza svolgendo quest e affrontando obiettivi, perciò il progresso narrativo coincide con la crescita del personaggio. In questo caso le scelte morali o di dialogo nelle quest influenzano la storia, ma incidono solo marginalmente sul potenziamento delle abilità. Al contrario, nei giochi world-driven (come Oblivion o Outward) il personaggio migliora con l’uso diretto delle abilità: per esempio ogni volta che si scocca una freccia aumenta la competenza nel tiro con l’arco, e in Oblivion ogni dieci miglioramenti di skill principali si ottiene un nuovo livello. In questi sistemi il modo di giocare è esso stesso la progressione, e il personaggio si sviluppa attraverso le azioni sistemiche del giocatore piuttosto che tramite missioni predefinite. Questa differenza si riflette anche nel ruolo interpretato: nei titoli quest-driven si “ruola” soprattutto attraverso decisioni narrative e morali nei dialoghi, mentre in quelli world-driven il ruolo emerge dalle azioni e dalle interazioni pratiche con il mondo di gioco.
Un esempio spesso discusso è quello della Confraternita Oscura in The Elder Scrolls IV: Oblivion. Dopo aver svolto numerose missioni e instaurato un legame narrativo con i membri della gilda, il giocatore riceve l’ordine di ucciderli tutti, nella cosiddetta “purificazione”. Il gioco non offre alternative all’interno della quest stessa: per completarla, devi obbedire. Tuttavia, Oblivion, in quanto RPG world-driven, permette una forma di ruolo più sottile ma autentica: il rifiuto stesso di proseguire. Molti giocatori hanno scelto consapevolmente di interrompere la questline, accettando di non ottenere le ricompense finali pur di restare fedeli alla psicologia del personaggio che stavano interpretando – ad esempio un assassino leale alla propria “famiglia” di emarginati. Questo tipo di scelta non è prevista dallo script, ma emerge dal giocatore: è una forma di agency silenziosa, eppure profondamente significativa. Non si tratta di opporsi a una narrazione forzata, ma di rispondere con coerenza a un bivio morale che il gioco non ha voluto tematizzare. In un GDR cartaceo, un DM avrebbe probabilmente previsto altre opzioni; in un videogioco, il rifiuto è già una forma di interpretazione. Questo esempio mostra che anche nei giochi con trama semi-rigida, la vera esperienza di ruolo può sopravvivere – ma spesso richiede al giocatore di sottrarsi alla logica del completamento sistematico.
4. Ruolo nei videogiochi vs giochi di ruolo cartacei: riflessioni filosofiche e pragmatiche
Cosa significa davvero “ruolare” in un gioco di ruolo
“Ruolare” significa interpretare un ruolo: assumere la personalità di un personaggio immaginario e prendere decisioni coerenti con tale personalità, come se si “recitasse” in un teatro interattivo. Nei giochi di ruolo cartacei (come Dungeons & Dragons), questo si traduce nel parlare e agire “come se” si fosse il personaggio, calandosi nei suoi panni. Ad esempio, un giocatore potrebbe decidere che il suo guerriero è impulsivo e onorevole, e dunque in ogni situazione cercherà di agire con coraggio e franchezza, anche se tatticamente svantaggioso. L’esperienza diventa una forma di narrazione condivisa: i giocatori descrivono le azioni e i dialoghi dei loro personaggi, contribuendo attivamente alla storia, mentre il Game Master (GM o Dungeon Master, DM) arbitra e incorpora queste scelte nella trama.
Nei GDR cartacei, il ruolo non è confinato da ciò che è scritto su una scheda o da opzioni predefinite: i giocatori possono tentare qualsiasi azione venga loro in mente, e starà al DM adattare le regole e la narrazione di conseguenza. Ad esempio, se in D&D un giocatore dichiara: “Provo a convincere il drago a unirsi a noi invece di combatterci”, il DM potrebbe improvvisare una difficoltà per la prova di persuasione e, in caso di successo, modificare la storia per includere il drago come alleato. Questa flessibilità umana permette una libertà creativa enorme: i giocatori co-creano l’avventura insieme al DM, e nessuna partita sarà uguale a un’altra. “Ruolare” in questo contesto significa quindi esprimere liberamente il carattere immaginato, influenzando un mondo che reagisce in maniera fluida alle iniziative dei partecipanti.
I videogiochi di ruolo e i loro limiti nell’interpretazione del personaggio
Quando passiamo ai videogiochi, il termine gioco di ruolo (GDR) indica un genere videoludico ispirato ai GDR cartacei, ma l’esperienza di “ruolare” cambia radicalmente. Un videogioco, per quanto complesso, deve incanalare le azioni del giocatore entro regole e opzioni predefinite. Questo introduce diversi limiti alla libertà di ruolo:
Dialoghi predefiniti: Nei videogiochi di ruolo l’interazione verbale con il mondo avviene tramite scelte di dialogo scritte dal team di sviluppo. Spesso al giocatore vengono presentate poche opzioni tra cui scegliere e non è possibile esprimere liberamente qualsiasi frase o tono desiderato. Ad esempio, in un GDR come The Elder Scrolls IV: Oblivion, i dialoghi servono essenzialmente a fornire informazioni e il gioco occasionalmente offre 2-3 scelte di risposta (essere gentile, neutrale o sgarbato), ma sono opzioni semplificate; non esiste la possibilità di improvvisare una risposta al di fuori di quelle elencate. Questo significa che non si può mai “uscire dal copione”: il giocatore non ha modo di far pronunciare al proprio alter ego battute creative o profonde oltre le alternative previste. Il sistema di dialogo non permette al giocatore di rappresentare davvero la personalità del personaggio oltre a etichette generiche come “il mio personaggio è buono o cattivo”. In breve, il personaggio non può parlare con voce propria, ma solo con quella che gli scrittori hanno scelto.
Regole rigide e mondo predeterminato: In un videogioco, tutte le azioni possibili devono essere anticipate e codificate in fase di sviluppo. Ciò porta a regole rigide: se il gioco non contempla un’azione, il giocatore semplicemente non può farla. Ad esempio, se un RPG digitale non prevede la possibilità di scavare una buca, nessun giocatore potrà mai farlo, anche se l’idea avrebbe senso in quella situazione. Nel cartaceo si potrebbe dire “scavo una buca per nascondermi”, e il DM deciderebbe cosa succede; nel videogioco, o il comando “scava” esiste oppure è fuori discussione. Questa rigidità limita la creatività spontanea. Inoltre il mondo, per quanto aperto, ha confini invalicabili (fisici o logici): NPC essenziali che “non possono essere attaccati o uccisi” perché manderebbe in stallo la trama, porte che rimangono chiuse fino a quando non si attiva un certo evento, oggetti di sfondo con cui non si può interagire, ecc. Il risultato è che il giocatore in un videogioco di ruolo è libero di esplorare solo i sentieri previsti dagli sviluppatori, mentre tutto il resto è fuori gioco. Anche le soluzioni ai problemi tendono a essere limitate: se l’avventura richiede di recuperare un oggetto rubato, magari il gioco offre due possibilità (persuadi il ladro o combatti), ma raramente consentirà un terzo approccio completamente imprevisto.
Libertà di espressione limitata: Interpretare un ruolo non è solo fare scelte pragmatiche (combattere, parlare, rubare), ma anche definire lo stile e la personalità con cui si fanno queste cose. Nei videogame, però, questa espressione è vincolata. Ad esempio, il linguaggio del corpo o il tono emotivo del personaggio sono decisi nelle cutscene o animazioni, non dal giocatore. Se voglio che il mio eroe sia terrorizzato dai ragni, in un GDR cartaceo posso fingere un tremito nella voce quando compaiono; in un videogioco, il personaggio affronterà il ragno con la stessa posa di sempre, a meno che gli autori abbiano previsto una reazione specifica. In pratica, molti videogiochi di ruolo lasciano al giocatore poca possibilità di recitare davvero: non si può modulare la voce del personaggio, né esprimere emozioni che il gioco non preveda. Anche decisioni che paiono “libere” talvolta portano comunque a esiti molto simili (il cosiddetto effetto di false agency, ovvero falsa libertà di scelta). Questa frizione tra l’identità immaginata dal giocatore e le opzioni effettivamente disponibili è un limite intrinseco del medium digitale.
Mancanza di improvvisazione e adattamento: Diversamente da un DM umano, un videogioco non può inventare sul momento nuove reazioni o situazioni in risposta a idee fuori dall’ordinario del giocatore. Tutto è pre-scritto o programmato. Se il giocatore tenta qualcosa di non previsto (ad esempio attaccare un alleato importantissimo per la storia), di solito il gioco o glielo impedisce fisicamente, oppure lascia che accada ma senza offrire uno sviluppo narrativo alternativo (magari il personaggio muore, ma allora la trama principale e molte missioni diverranno incompletabili). Questo spesso forza il giocatore a rientrare nei binari pensati dai designer. Si pensi a quando un videogame ci dice: “Non puoi fare questo ora” oppure fa accadere qualcosa che ignora la nostra scelta perché la storia deve proseguire in un certo modo. In un GDR cartaceo, “la storia deve proseguire” adattandosi a ciò che fanno i personaggi; in un videogame accade l’opposto: sono le azioni dei personaggi che devono adattarsi alla storia già stabilita (salvo quei bivi o varianti che gli autori hanno implementato). È emblematico il messaggio implicito che gli sviluppatori rivolgono al giocatore: “Gioca pure come vuoi, purché sia entro i limiti del nostro schema”. Il giocatore a sua volta può pensare “È il mio personaggio”, ma deve comunque muoversi in un mondo pre-programmato uguale per tutti gli altri giocatori. Questa contrattazione di potere tra libertà del giocatore e controllo del designer è sempre presente nei GDR videoludici.
In sintesi, i videogiochi di ruolo tendono a incanalare l’esperienza entro percorsi relativamente stretti rispetto alla pagina bianca dell’immaginazione in un gioco cartaceo. Il giocatore di un RPG digitale interpreta un ruolo all’interno di vincoli fissi: può personalizzare il personaggio entro certi parametri e fare scelte tra quelle offerte, ma non può uscire davvero dallo spartito scritto dagli autori. Anche quando un gioco offre tante opzioni e finali multipli, resta il fatto che tutte quelle possibilità sono state determinate in anticipo. Il giocatore di un videogioco RPG vive una forma di “co-autorialità limitata”: interagisce per far svolgere la storia, ma i risultati sono già confezionati dal designer (per quanto possano divergere a seconda delle scelte). L’illusione della scelta spesso maschera il fatto che la vera autorialità rimane degli sviluppatori. Ciò non significa che non vi sia alcun ruolo da giocare nei videogiochi di ruolo, ma che esso è mediato e circostanziato dalle regole del software.
Potenzialità uniche del videogioco nell’emergere di un’identità di ruolo
Nonostante i limiti sopra descritti, il medium videoludico ha anche punti di forza unici nell’offrire un’esperienza di ruolo. In alcuni casi, i videogiochi riescono a far emergere una forte identità del personaggio e un senso di ruolo in modi diversi (e talvolta complementari) rispetto ai GDR cartacei. Ecco alcune potenzialità peculiari dei giochi di ruolo digitali:
Agency “sistemica” tramite statistiche e fazioni: I videogiochi RPG spesso forniscono al giocatore una serie di parametri e scelte di personalizzazione (classe, abilità, allineamento morale, appartenenza a fazioni, ecc.) che influenzano tangibilmente il mondo di gioco. Questi sistemi permettono al giocatore di costruire un ruolo in termini di gameplay. Ad esempio, scegliere di essere un ladro con alta furtività e allineamento “caotico” non è solo una nota interpretativa, ma modifica concretamente le opportunità disponibili: potrai intrufolarti in luoghi proibiti, riceverai missioni dai ladri, magari i paladini della legge ti guarderanno con sospetto. Il sistema di gioco reagisce ai parametri del personaggio. In Fallout: New Vegas, per esempio, unirsi a una fazione come la Legione di Caesar preclude l’amicizia con la fazione opposta della RNC; questo spinge il giocatore a interpretare fino in fondo il ruolo di legionario (se quella è la sua scelta), vedendo il mondo attraverso quel punto di vista fazionale. Allo stesso modo, molti giochi utilizzano allineamenti morali o reputazioni: un personaggio molto “malvagio” potrebbe essere accolto dai personaggi negativi e temuto dai cittadini onesti. Tutto ciò avviene tramite algoritmi e script, ma dà al giocatore la sensazione che il gioco “riconosca” il ruolo che sta interpretando. Anche la progressione di abilità (ad es. diventare un maestro incantatore) contribuisce all’identità: il personaggio cambia e si specializza in base alle scelte del giocatore, creando una storia personale di crescita (il guerriero rozzo che diventa un campione nobile, o il mago che sacrifica la forza fisica per la conoscenza arcana, ecc.).
Narrazione interattiva e finale aperto: solitamente un videogioco di ruolo sfrutta la tecnologia per offrire trame ramificate, finali multipli e reattività alle scelte, fornendo al giocatore un senso di influenza narrativa. Pur essendo vero che ogni ramo è pre-scritto, la possibilità di esplorare percorsi alternativi incoraggia il giocatore a definire la personalità del proprio alter ego attraverso le decisioni. Ad esempio, nei giochi BioWare come Mass Effect o Dragon Age, si può decidere se il proprio protagonista sarà misericordioso o spietato, diplomatico o aggressivo, e tali scelte portano a conseguenze nel mondo di gioco (compagni che approvano o disapprovano, esiti diversi per alcune missioni, relazioni che cambiano). Sebbene le opzioni siano finite, il percorso specifico che ogni giocatore traccia può sembrare unico e personale. Il videogiocatore di un RPG “forgia il proprio percorso narrativo” creando un testo nuovo (la propria esperienza di gioco) basato sulle scelte fatte e sulle combinazioni di personaggio adottate. In altre parole, due giocatori dello stesso videogioco possono raccontare storie molto diverse delle loro partite: “Nel mio finale il regno è salvo e io sono diventato re” vs “Nel mio finale il mio personaggio è morto da martire dopo aver tradito il regno”. Questo potere decisionale conferisce un senso di ruolo perché il giocatore vede la personalità che ha scelto per il suo PG riflessa negli esiti della storia (un personaggio malvagio probabilmente guiderà la vicenda verso un finale oscuro, uno altruista verso un finale eroico, ecc.). I videogiochi, inoltre, possono gestire una complessità di variabili difficilmente tenibile in mente da un DM umano: possono tracciare decine di scelte fatte nel corso dell’avventura e ripercuotere quegli effetti più avanti in modi sottili. Ciò consente una coerenza causale che dà spessore al ruolo interpretato – ad esempio, ricordando al giocatore come si è comportato in passato (“L’NPC ti saluta calorosamente perché tempo fa lo hai aiutato”).
Immersione sensoriale e ambientazione tangibile: Un vantaggio innegabile del videogioco è la rappresentazione audiovisiva del mondo e del personaggio. Questa concretezza può aiutare alcuni giocatori a immergersi nel ruolo. Vedere il proprio personaggio sullo schermo con l’armatura scintillante che si è scelto per lui, o ascoltare il tono della voce che gli è stato dato (nei titoli doppiati), può rendere l’identificazione più immediata. L’ambientazione digitale – con città disegnate nei dettagli, creature con modelli 3D realistici, musiche evocative – permette di vivere il mondo di gioco in prima persona. Ciò può facilitare l’immedesimazione: ad esempio, esplorare una città in Skyrim di notte, sotto la pioggia, con gli NPC che ti salutano perché hai compiuto una certa impresa, può far sentire davvero “l’eroe vagabondo” in modo tangibile, più di quanto non farebbe leggere una descrizione su carta. Inoltre, i videogame consentono di personalizzare l’aspetto del proprio avatar in modo visivo: si può scegliere volti, acconciature, abbigliamento. Questo processo di character creation e customization aiuta a definire mentalmente il personaggio (“sto creando un elfo gracile con lo sguardo truce, probabilmente un mago rinnegato…”), facilitando poi il ruolo. L’ambiente digitale risponde anche in tempo reale ad azioni fisiche: se decido che il mio personaggio è vandalo e rompo tutti i barattoli nel villaggio, il gioco può mostrarmi le guardie che mi corrono dietro. Queste reazioni immediate del mondo alla condotta del giocatore rafforzano la sensazione di avere un impatto da protagonista.
Moralità emergente dalle scelte meccaniche: In alcuni videogiochi di ruolo, la moralità e l’identità emergono non solo da scelte di dialogo, ma anche dal comportamento di gioco. Un esempio è la serie Fallout: il gioco tiene traccia di atti come rubare, aiutare sconosciuti, uccidere innocenti, e modifica un valore di karma o reputazione di conseguenza, influenzando come il mondo ti percepisce (i carovanieri potrebbero attaccarti se sei noto come bandito, oppure potresti ricevere sconti dai negozianti se hai fama di eroe altruista). Anche senza un indicatore numerico, molti giochi producono narrativa emergente: il giocatore stesso si racconta la propria storia in base a come gioca. Ad esempio, in The Elder Scrolls V: Skyrim nulla ti obbliga a seguire un codice morale, ma se decidi volontariamente di non rubare mai e di combattere solo i criminali, stai di fatto interpretando il ruolo di un eroe virtuoso, e l’esperienza di gioco sarà coerente con quel ruolo (verrai visto come un campione di giustizia dai personaggi della Gilda dei Guerrieri, ecc.). Al contrario, potresti diventare un assassino seriale nel gioco, e sebbene la trama principale magari non lo riconosca esplicitamente, tu come giocatore avrai vissuto una storia diversa, plasmata dalle tue azioni: magari hai sterminato interi villaggi e ora viaggi da ricercato, creando tensione in ogni città che visiti (anche solo nella tua percezione, anche se per es. in TES IV: OBlivion se commetti un omicidio potresti essere contattato dalla Confraternita Oscura e invitato a entrare nei loro ranghi). Questo tipo di agency libera – agire secondo la propria etica anche oltre le missioni – è qualcosa che il medium videoludico permette grazie alla simulazione: il gameplay diventa esso stesso espressione del ruolo. Giochi come Dishonored addirittura integrano questa idea: se giochi in modo letale e violento, il mondo diventa più oscuro (aumentano i ratti, i dialoghi dei personaggi riflettono paura), mentre uno stile furtivo e non letale mantiene un’atmosfera più speranzosa. In questo modo il modo in cui giochi è il ruolo che interpreti, e le meccaniche traducono la morale in conseguenze tangibili.
In definitiva, i videogiochi di ruolo suppliscono alla mancanza di un DM umano con sistemi e contenuti predefiniti che, se ben progettati, fanno sentire il giocatore protagonista attivo. C’è una sorta di ciclo di feedback: il giocatore fa scelte (in termini di statistiche, azioni, dialoghi) e il gioco reagisce (modificando eventi, parametri, atteggiamenti del mondo di gioco). Pur sapendo che tutto è stato predisposto, un giocatore coinvolto può avere l’illusione gratificante di plasmare davvero la storia e il proprio personaggio. I giocatori percepiscono di aver scritto la propria esperienza durante il gameplay, perché vedono la storia svolgersi secondo le loro decisioni e caratteristiche uniche del personaggio. Questa sensazione di autorialità personale è uno degli obiettivi principali dei GDR digitali, anche se – col senno di poi – sappiamo che è un’autorialità circoscritta.
Opinioni di game designer e teorici sul “ruolare” nei videogame
Il dibattito sul valore e i limiti del “ruolare” nei videogiochi è attivo sia tra i game designer sia tra studiosi di game studies. Alcuni designer fanno notare che nel linguaggio comune l’etichetta gioco di ruolo applicata ai videogiochi si è spesso allontanata dal significato originario: identifica più che altro un set di meccaniche (livelli, statistiche, equipaggiamento) ereditate da D&D, ma non garantisce che ci sia una reale interpretazione di un ruolo da parte del giocatore. In questi casi il termine RPG indica il genere (con enfasi sulla progressione e il combat system) più che l’esperienza interpretativa. Alcuni critici hanno sottolineato questa distinzione: “stiamo davvero ruolando o solo giocando a scegliere parametrie?”. Il designer Chris Avellone (notissimo autore di RPG occidentali come Planescape: Torment) in varie interviste ha evidenziato come il vero role-play nei videogiochi emerga quando le scelte del giocatore in termini di caratterizzazione influenzano la narrazione, e non solo le statistiche di combattimento. Avellone e altri scrittori di RPG occidentali tendono a valutare positivamente quei giochi che lasciano spazio alla player agency narrativa, pur ammettendo che richiede un grande sforzo di scrittura e design.
Molti studiosi già dagli anni ‘90 discutevano la co-autorialità nei media interattivi. Si pensava inizialmente che i videogiochi offrissero al giocatore il ruolo di co-autore della storia. In parte è vero: il giocatore di un RPG digitale può “scegliere il percorso” e quindi raccontare una versione personale della storia. Egli “prende alcune delle caratteristiche tradizionalmente assegnate all’autore” nel senso che seleziona quali parti della storia vedere, in che ordine e con che esito. Inoltre, la possibilità di creare personaggi molto diversi (per genere, razza, allineamento, classe, ecc.) fa sì che l’esperienza narrativa possa variare enormemente. Queste possibilità hanno portato alcuni teorici a parlare di “autore distribuito” tra designer e giocatore. Tuttavia, altri studiosi hanno ridimensionato questa idea riconoscendo che nel videogioco l’autore primario resta il designer: il giocatore può sì scegliere, ma non può inventare nulla di genuinamente nuovo, può solo esplorare le opzioni predisposte3. In pratica, l’agency (cioè la capacità di far accadere le cose volute) è condizionata: il giocatore ha volontà di fare X o Y, ma il gioco decide gli effetti precisi di X o Y.
Un altro concetto discusso è l’“illusione della scelta”. Diversi game designer (soprattutto nel campo della narrativa interattiva) ammettono di utilizzare tecniche per far percepire al giocatore un ventaglio di possibilità più ampio di quello reale. Ken Levine, designer di BioShock, ha parlato di come spesso i giochi diano al giocatore scelte che alla fine convergono verso esiti simili, ma l’importante è che durante il gioco il giocatore si senta responsabile di ciò che accade. Questa responsabilità percepita alimenta il coinvolgimento emotivo, anche se strutturalmente la storia è guidata. D’altro canto, designer come Warren Spector (deus ex machina di Deus Ex) hanno sempre spinto per creare giochi con vera libertà di approccio: Spector sosteneva che un buon RPG (o immersive sim) dovrebbe permettere al giocatore di affrontare le sfide “in qualsiasi modo sia logico aspettarsi”, lasciando che le conseguenze emergano dalle sue azioni. Ciò si collega all’idea di emergent gameplay: quando le meccaniche sono abbastanza generali e ben interconnesse, i giocatori possono trovare soluzioni inaspettate e creare storie impreviste anche per gli sviluppatori stessi. Ad esempio, in Deus Ex molti giocatori hanno trovato modi di superare ostacoli usando combinazioni di abilità e oggetti non previste ufficialmente (come impilare casse per scavalcare un muro invece di ottenere la chiave di una porta). Queste micro-storie di creatività ludica sono molto apprezzate da alcuni designer, perché avvicinano il videogioco allo spirito sandbox e “do it yourself” dei GDR da tavolo.
Teorici dei giochi di ruolo sottolineano anche un aspetto filosofico: il videogioco di ruolo è una sorta di “negoziazione di identità” tra il giocatore e il designer mediata dal personaggio. Il personaggio giocante (PG) in un videogioco è al centro di tensione: da un lato c’è il giocatore che vuole esprimersi liberamente, dall’altro il designer che ha scritto una storia e imposto delle caratteristiche a quel mondo. Questo conflitto può portare a momenti in cui l’illusione si infrange – come quando il gioco impone al personaggio di compiere un’azione per andare avanti, ma il giocatore sente che il suo personaggio non lo farebbe mai. Per esempio dopo ore passate a immergersi nel ruolo, il giocatore potrebbe venire “strappato dall’esperienza” da un dialogo obbligato che risulta alieno al carattere che si era costruito. In quei momenti il videogioco rivela i suoi limiti rispetto al libero arbitrio del GDR cartaceo. D’altra parte, sebbene guidata, l’esperienza può ugualmente avere profondità. Il game designer e accademico Robin D. Laws (l’ideatore del GUMSHOE System) ad esempio distingue tra deep role-playing (tipico del teatro improvvisato dei GDR cartacei) e light role-playing (quello dei videogiochi, dove il giocatore riempie di suo gli spazi vuoti lasciati dal design). In quest’ottica, anche seguire un percorso prestabilito può implicare interpretazione: il giocatore può decidere nella sua testa perché il personaggio faccia quella scelta prevista dal gioco, costruendo una motivazione interna coerente, anche se il gioco non la esplicita. Questo tipo di “ruolo interiore” è qualcosa che molti appassionati di RPG videoludici coltivano: ad esempio, leggono una scelta di dialogo neutra e la immaginano pronunciata con sarcasmo dal loro personaggio, perché così si adatta meglio al carattere che hanno in mente.
In conclusione, il consenso generale tra designer e teorici è che il videogioco di ruolo può certamente offrire un’esperienza di role-play, ma essa è di natura diversa rispetto al cartaceo: più strutturata e mediata. Ha il pregio di poter coinvolgere con narratività interattiva e simulazione, ma il limite di non poter trascendere ciò che è stato anticipato dagli autori. Come dichiarano gli sviluppatori di Disco Elysium, il loro obiettivo era proprio spingersi al massimo per colmare questo divario, offrendo al giocatore un’“inedita libertà di scelta”4 e cercando di presentare “la più fedele rappresentazione del gioco di ruolo da tavolo mai tentata nei videogiochi”. Ciò dimostra quanto sia sentita la sfida di rendere giustizia al concetto di “gioco di ruolo” in formato videoludico.
Ottimizzazione vs narrazione nei GdR videoludici e cartacei
Nei giochi di ruolo digitali la meccanica è spesso esplicita: statistiche, alberi delle abilità, loot e crafting spingono i giocatori a cercare la build “perfetta” per massimizzare danni e sopravvivenza. Più il sistema offre opzioni (poteri, perk, equipaggiamenti), più diventa inevitabile che i giocatori min-maxino i propri personaggi. Il powerplay è uno stile di gioco orientato al progresso verso un obiettivo specifico, ovvero focalizzato sui numeri e sull’efficacia piuttosto che sulla storia. In pratica, il giocatore spende tutte le risorse disponibili nei parametri che danno maggior beneficio concreto, trascurando coerenza psicologica e scelte di ruolo. Questo induce un circolo vizioso di ottimizzazione: il personaggio cresce in potenza, il gioco si adatta aumentando la sfida e offrendo loot migliori, e i giocatori cercano sempre più build sempre più efficaci. In breve, nei titoli digitali si finisce per giocare il sistema più che il personaggio.
Diversi autori di game design e game designer professionisti hanno messo in luce questo conflitto. Chris Avellone sottolinea che narrazione e meccaniche devono integrarsi: «molte narrazioni videoludiche ne risentono quando è evidente che i sistemi di gioco e il gameplay loop non sono connessi alla storia»5. In altri termini, se il sistema ludico invita il giocatore a comportarsi in modo incoerente con la storia del personaggio, l’immersione ne risente gravemente. Anche Josh Sawyer (game designer di Icewind Dale, Fallout: New Vegas, Pillars of Eternity) evidenzia l’aspetto pragmatico del problema: non ottimizzare significa quasi inevitabilmente sprecare ore di gioco in combattimenti o scelte rischiose. Come dice Sawyer, “il costo di non essere abbastanza ottimizzati è una grande quantità di tempo e di frustrazione”6. In altre parole, l’ottimizzazione agisce come una assicurazione contro la perdita di tempo (retry di combattimenti, fallimenti ripetuti), rinforzando l’abitudine al powergaming.
Per esperenza personale (sia da DM che da giocatore pen & paper e videogiocatore) ritrovo riscontro alla tendenza al poweplaying, e non sono l’unico: il blog di game design The Alexandrian nota che in qualsiasi sistema complesso – videogioco o cartaceo – i giocatori inevitabilmente tenderanno a ottimizzare i personaggi7; cercare di “correggere” questo comportamento spesso significa limitare l’ampiezza di scelte disponibili. In sintesi, gli esperti concordano che il focus sulle statistiche nei GdR videoludici rompe il patto di sospensione dell’incredulità, premiando la meccanica a discapito della drammatizzazione.
Per esempio:
The Elder Scrolls V: Skyrim. Il sistema di level-up e di crafting di Skyrim incentiva fortemente la specializzazione in poche abilità. Un giocatore pragmatico riverserà tutti i punti nelle caratteristiche utili (forza o furtività) e collezionerà ossessivamente l’equipaggiamento più potente, finendo per ignorare completamente aspetti “narrativi” come retroscena o motivazioni del personaggio. Di fatto, i giocatori preferiscono creare build ottimali piuttosto che interpretare un personaggio “debole” o atipico. Situazioni simili si vedono anche altrove: per esempio, in The Witcher 3 Geralt dichiara di portare sempre due spade (argento e acciaio), ma il gioco permette di raccoglierne dozzine di altre (e non solo spade). In Skyrim capita qualcosa di analogo: l’accumulo di oggetti contraddice la fiction, e il protagonista finisce col comportarsi più da “hack’n’slash” che da personaggio con una sua personalità unica.
Baldur’s Gate 3. Basato sulle regole di D&D 5ª Ed., BG3 permette una personalizzazione profonda delle build. Qui la pressione all’ottimizzazione è anch’essa evidente: come sottolineato da Sawyer, chi non punta su statistiche e talenti ottimali rischia di dover ripetere spesso le missioni, pagando in tempo di gioco e frustrazione. Molti giocatori sentono quindi l’obbligo di massimizzare Forza, Destrezza o incantesimi chiave per superare i combattimenti difficili in modo rapido. Larian ha addirittura introdotto una modalità Explorer rivolta a chi preferisce immergersi nella storia con meno enfasi sul combattimento tattico, un segnale che consapevolmente gli sviluppatori hanno riconosciuto la tensione tra narrazione e build “perfette”.
Altri titoli. Situazioni analoghe si ripetono in molti RPG. Ad esempio Fallout (soprattutto New Vegas) e Dragon Age incoraggiano build specialistiche (berserk, scaltro tiratore scelto, mago focoso) a scapito di percorsi più ibridi. Anche in titoli open-world e ARPG la ricerca del danno per secondo (DPS) massimo spinge i giocatori a utilizzare online guide e wiki strategiche invece di seguire impulsi narrativi. In breve, ogni volta che un gioco enfatizza statistiche e bottini, l’autentica interpretazione del personaggio passa in secondo piano.
Nel gioco di ruolo da tavolo la situazione è spesso rovesciata: la narrazione condivisa prevale sulle regole numeriche rigide. Grazie alla presenza di un Dungeon Master (o Narratore), gli ostacoli e le sfide possono essere gestiti in modo flessibile. Il DM può accogliere una scelta di ruolo coerente con il personaggio anche se non ottimale: ad esempio, permettere di riuscire in un’azione solo per buone motivazioni narrative, oppure aumentare la difficoltà per sfidare un personaggio troppo potente. In pratica, ciò significa che è possibile fare scelte “umane” (come tenere fede a un giuramento o seguire un credo) anche se esse riducono l’efficacia meccanica in gioco.
In molti GdR (cartacei) moderni questo spirito è esplicito: si punta sulla creatività del giocatore più che sulla misurazione esatta delle abilità. La stessa teoria del roleplay mette l’accento sulla coerenza: come spiega un articolo italiano sul gioco di ruolo, costruirsi un background serve prima di tutto «a garantire la massima coerenza fra il proprio personaggio e le sue azioni»8. In altre parole, nelle campagne cartacee chi interpreta tende a privilegiare le motivazioni e la storia individuale rispetto al puro incremento di potere.
Di conseguenza, nei GdR da tavolo spesso sono scelte narrative sensate (anche se non ottimali) a venire premiate. Il sistema numerico esiste, ma è più flessibile: se il personaggio armato di tutto punto fallisce un tuffo disperato nel vuoto, un buon GM può permettere un risultato parziale invece di lasciare il giocatore bloccato. La libertà del tavolo permette dunque di seguire fedelmente il concept del personaggio. In sintesi, a differenza dei videogiochi, il GdR cartaceo valorizza l’interpretazione coerente e lascia al DM la possibilità di plasmare la storia – favorendo scelte narrative anche se meccanicamente sottodimensionate
Esempi pratici: successi e fallimenti nell’esperienza di ruolo videoludico
Per concretizzare questi concetti, è utile esaminare alcuni videogiochi di ruolo noti per come gestiscono l’esperienza di ruolo – alcuni eccellono nel far sentire il giocatore libero di interpretare, altri un po’ meno.
Esempi di successo:
Dragon Age: Origins – Considerato uno dei migliori RPG occidentali della sua generazione, Origins riesce a offrire un'autentica esperienza di ruolo grazie a una scrittura solida e a un sistema di scelte significative. Fin dall'inizio, il gioco ti assegna un “background” (nobile, elfo di città, mago del Circolo, ecc.) che cambia profondamente i primi eventi della storia e il modo in cui gli NPC ti trattano. Le missioni principali e secondarie possono essere affrontate in modi diversi, spesso moralmente ambigui. Ad esempio, durante la missione per ottenere l’aiuto dei nani, puoi scegliere quale dei due pretendenti al trono appoggiare, influenzando l’equilibrio di potere politico del mondo. Il gioco tiene traccia della tua reputazione con i compagni, che possono abbandonarti (o addirittura combatterti) se le tue decisioni li alienano. L’impressione è di costruire il tuo personaggio davvero “ruolandolo”, e non solo potenziandolo.
Fallout: New Vegas – Un altro esempio spesso citato è Fallout: New Vegas (2010), un RPG open-world acclamato per la sua libertà di scelta. Qui il personaggio del giocatore è volutamente una “pagina bianca” (un corriere senza passato definito) e sta al giocatore decidere che tipo di individuo diventerà nel deserto post-nucleare del Mojave. La trama principale stessa può divergere in quattro direzioni principali a seconda di quale fazione il giocatore decide di appoggiare (Nuova California Republic, Legione di Caesar, Mr. House, oppure sé stesso fondando un nuovo ordine a New Vegas). Ogni fazione incarna certi valori, dunque la scelta allinea il personaggio a una visione del mondo. Inoltre, quasi ogni missione secondaria in NV ha soluzioni multiple che rispecchiano diversi approcci morali: si può spesso negoziare invece di combattere, tradire un alleato per opportunismo, usare le proprie abilità (scienza, esplosivi, eloquenza) per risolvere problemi in modi creativi. Il gioco tiene traccia della reputazione in varie comunità, per cui “ruolare” un personaggio carismatico e benvoluto porta a un’esperienza diversa rispetto a “ruolare” un mercenario spietato temuto da tutti. Ad esempio, se decidi di impersonare un buon samaritano che aiuta i deboli, potresti diventare un eroe per la città di Goodsprings e un nemico giurato dei predoni; il gioco ti fornirà benefici (sconti, supporto) da parte di chi ti ama e ostacoli da parte di chi ti odia, rendendo tangibile il ruolo che ti sei scelto. Viceversa, puoi diventare il terrore del Mojave, e il mondo reagirà di conseguenza (taglie sulla tua testa, dialoghi in cui la gente ti supplica di risparmiarla, ecc.). New Vegas non è perfetto – ad esempio il tuo personaggio rimane muto e certe limitazioni tecniche ci sono – ma è riconosciuto per la coerenza con cui supporta diversi stili di gioco e di personaggio. Questo fa sì che i giocatori parlino dei propri “personaggi di New Vegas” quasi come farebbero dei loro PG di D&D, con storie e aneddoti personali.
Mass Effect 2 – Pur essendo un action-RPG fortemente narrativo e cinematico, Mass Effect 2 riesce a coinvolgere il giocatore nel ruolo del Comandante Shepard grazie al suo sistema di dialoghi Paragon/Renegade. Il tuo comportamento plasma la percezione che gli altri personaggi hanno di te e può determinare la sopravvivenza o meno dei membri del team nella missione finale. Ogni compagno ha una storia personale che puoi ignorare, affrontare con freddezza o approfondire con empatia. Nonostante la trama principale segua un percorso abbastanza lineare, le relazioni e la reputazione morale di Shepard sono nelle mani del giocatore, che può costruirsi un’identità coerente all’interno dei limiti imposti dalla narrazione.
The Elder Scrolls III: Morrowind – Morrowind è un caso quasi estremo di libertà nel roleplay. Il gioco ti lancia nel mondo senza alcun obbligo di seguire la missione principale, e molte quest secondarie sono scoperte esplorando, parlando con personaggi minori o semplicemente curiosando. Le abilità si sviluppano con l’uso diretto, quindi il tuo personaggio diventa ciò che fai: se rubi spesso, diventi più furtivo; se usi la magia, migliori come incantatore. Puoi ignorare completamente la storia principale e costruirti una vita come ladro, mago errante o mercante. Inoltre, puoi uccidere personaggi chiave senza che il gioco si blocchi: appare un messaggio che ti avvisa che “hai danneggiato il tessuto del destino”, ma puoi comunque continuare a vivere nel mondo e vederne le conseguenze. Questo rende Morrowind uno dei pochi RPG in cui la coerenza delle azioni viene premiata con una libertà reale, non solo illusoria.
Esempi di esperienza limitante (falsa agency o ruolo fisso):
Giochi con falsa agency: Alcuni titoli promettono libertà di scelta ma in realtà offrono scelte illusorie. Un caso classico è quello di certi giochi narrativi dove, indipendentemente dalle opzioni di dialogo selezionate, gli eventi principali accadono allo stesso modo. Ad esempio, nei giochi della Telltale (The Walking Dead, Game of Thrones ecc.), spesso ti viene chiesto di compiere decisioni difficili (salvare il personaggio A o B? Dire la verità o mentire?), ma alla prova dei fatti la trama converge quasi sempre su un binario prestabilito. Puoi avere l’impressione di influenzare la storia episodio per episodio, ma il finale e molti snodi critici risultano uguali per tutti i giocatori, con qualche variazione minore. Questo ovviamente mina la sensazione di ruolo: se il mio Clementine in The Walking Dead è stata buona o crudele, alla fine farà poca differenza sugli eventi finali – cambia solo la mia percezione personale, ma il gioco non la riconosce pienamente. Un altro esempio spesso citato è Mass Effect 3: dopo una trilogia in cui il giocatore ha fatto decine di scelte (chi sacrificare, con chi allearsi, quale etica seguire come Comandante Shepard), molti rimasero delusi dal fatto che il finale originale del terzo capitolo semplificava tutto a tre possibilità quasi identiche, determinate all’ultimo momento. Le promesse di un finale plasmato dalle proprie decisioni si sono rivelate, secondo alcuni, una falsa agency, portando a critiche feroci. Sebbene BioWare abbia poi parzialmente rimediato con un finale esteso, questo caso resta emblematico dei limiti nell’offrire realmente esiti diversificati: per motivi di produzione e coerenza narrativa, spesso si finisce per riportare il giocatore in carreggiata nonostante le deviazioni prese.
Ruoli fissi mascherati da giochi di ruolo: Ci sono videogiochi classificati come RPG in cui il giocatore in realtà non ha modo di interpretare un personaggio diverso da quello concepito dagli autori. Un esempio potrebbe essere Final Fantasy X9: il protagonista Tidus ha un carattere, un background e un destino già scritti; il giocatore lo guida attraverso combattimenti e scenari, ma non può decidere nulla di significativo sulla sua personalità o sulle svolte narrative (se non scegliere l’ordine di completamento di qualche area opzionale). In pratica si assiste a una storia – certamente interattiva nei combattimenti – ma non la si altera in alcun modo. In giochi così, parlare di “ruolo” è quasi una metafora: il ruolo è immedesimarsi emotivamente nel protagonista mentre si segue la storia, più che plasmarlo. Per molti versi, titoli del genere sono più vicini a romanzi o film interattivi che a giochi di ruolo veri e propri. Un altro esempio è The Witcher 3: un gioco eccellente, spesso chiamato RPG, dove però interpreti Geralt di Rivia10, un personaggio tratto dai romanzi con una personalità definita. Pur avendo qualche scelta morale nei dialoghi, Geralt rimane Geralt – il giocatore non può trasformarlo in qualcun altro, solo enfatizzare alcuni suoi tratti (ad esempio farlo comportare in modo più compassionevole o più cinico in certe vicende). Siamo lontani dalla tabula rasa offerta da titoli come Skyrim. Dunque, sebbene The Witcher 3 sia ricchissimo sul piano narrativo, come role-play offre una libertà ridotta: è un ruolo interpretativo “vincolato”, dove si può decidere come Geralt reagisce entro un range coerente col personaggio, ma non chi Geralt sia davvero (quello è già stabilito).
Definire “gioco di ruolo” un videogioco è appropriato se riconosciamo che si tratta di un’esperienza di ruolo mediata dalla tecnologia: non identica a quella dei giochi cartacei, ma che ne imita alcuni aspetti chiave. Filosoficamente, c’è chi sostiene che il vero ruolo si possa vivere solo con la libertà totale di immaginazione permessa da un DM umano; pragmaticamente però, i videogiochi di ruolo hanno dimostrato di poter offrire mondi virtuali coinvolgenti dove il giocatore, entro certi limiti, può plasmare il proprio destino e la propria identità. Il senso di chiamare “gioco di ruolo” un videogioco sta dunque in questo: nel mettere il giocatore al centro della storia, consentendogli di influenzarla con le proprie decisioni e di caratterizzare un personaggio secondo la propria volontà, anche se quell’influenza avviene lungo binari preparati e quella volontà può esprimersi solo attraverso scelte finite. È una danza tra espressione personale e struttura predefinita. Quando la danza riesce bene – come nei migliori RPG digitali – il giocatore può dimenticare i fili che guidano la marionetta e sentirsi, per qualche ora, un avventuriero che vive realmente in un altro mondo. Questo è il cuore del gioco di ruolo, sia attorno a un tavolo con carta e penna, sia davanti a uno schermo con mouse e tastiera: la magia di credere, anche solo per finta, di essere “altro da sé” in un universo di fantasia. E se un videogioco riesce a farci provare questa magia, allora merita senz’altro il titolo di gioco di ruolo.
Conclusione
Oggi il concetto di “gioco di ruolo” nei videogiochi è profondamente complesso e sfaccettato. Nella sua accezione migliore un RPG è un’esperienza in cui il giocatore può sentirsi davvero artefice del proprio destino narrativo, attraverso crescita del personaggio, personalizzazione e scelte morali significative. I game designer continuano a sperimentare: dai mondi lineari e testuali degli anni ’80 fino ai vasti universi 3D interattivi del 2025, la definizione di RPG si è ampliata ad abbracciare una varietà di modalità di gioco.
Questa ampiezza pone una sfida: ha ancora senso applicare un’unica etichetta a esperienze tanto diverse? Forse il dibattito è in gran parte teorico: finché un gioco offre elementi distintivi (es. progressione del personaggio, opzioni di dialogo, un minimo di ruolo interpretativo), è in buona fede chiamarlo RPG. Tuttavia la comunità chiede consapevolezza: il termine dovrebbe servire a indicare più chiarezza, non mera vendita di un “brand”. Alla fine, ciò che conta è il ruolo che l’utente sente di aver interpretato. Che si tratti di un eroe solitario come in The Witcher, detective inebriati di Disco Elysium, guerrieri di Dark Souls o avventurieri di Skyrim, il cuore del GdR è l’illusione (o la realtà) di poter incarnare un personaggio in modo profondo. Rimane quindi alla nostra riflessione: la parola “gioco di ruolo” è forse un mero complimento marketing, oppure un pegno alla possibilità di raccontarci storie in cui noi stessi siamo i protagonisti? La conversazione resta aperta.
Tenderei a escludere da questo articolo anche gli MMO rpg come World of Warcraft perché i loro sistemi non permettono un vero e proprio senso di ruolaggio, perché:
Gli MMO non sono progettati per il roleplay, ma per il grind, il completamento di quest, il raggiungimento di obiettivi collettivi (raid, PVP, ecc.). Il loro core loop è ottimizzazione meccanica, non espressione narrativa. Il gioco "vero" è far salire il tuo livello, prendere equip migliori, essere efficace in gruppo.
Il mondo è troppo standardizzato. Anche se puoi "ruolare" il tuo personaggio a livello interpretativo, tutti fanno le stesse quest, negli stessi luoghi, nello stesso ordine. Non c’è spazio reale per cambiare il mondo o incidere in modo permanente. Gli NPC e l’ambiente non reagiscono al tuo comportamento ruolistico.
L'interazione sociale è mista. In server RP (roleplay server) puoi trovare comunità che si sforzano di ruolare, creando eventi, trame, gilde tematiche (es. casate nobiliari, bande mercenarie). Ma il resto del server e del gioco ti riporta sempre all'approccio "meccanico": farming, ottimizzazione, dungeon rush. Questo significa che il roleplay è una scelta volontaria e "in più", non supportata attivamente dalle meccaniche.
Tuttavia, quando ci riesce — cioè quando trovi un buon gruppo o una buona comunità — il roleplay negli MMO può essere potentissimo, perché combina:
persistenza del mondo,
presenza reale di altri giocatori,
storie emergenti genuine.
Nei migliori casi (alcuni server RP di WoW storico, come Argent Dawn EU ai tempi d'oro), la gente costruiva vere storie condivise: guerre tra gilde, commerci, complotti politici. Tutto senza che il gioco meccanico glielo imponesse.
D’altro canto anche quando la community si impegna nel ruolare all’interno dei serve RP il mondo di gioco non si modifica e rimane sempre rigido dentro le sue regole, perché, appunto, non è previsto by design. I giocatori stanno sì ruolando, ma non nel videogioco, potremmo quasi paragonare questa tipologia di gioco ai giochi di ruolo by chat dei primi anni 2000.
In sintesi:
Di per sé, World of Warcraft non è pensato per il vero gioco di ruolo.
Il roleplay esiste grazie ai giocatori che lo creano, non perché il design lo sostenga.
Ruolare in un MMO è quindi una sfida continua: contro il design, contro le convenzioni di gameplay ottimizzato, contro l’indifferenza del mondo.
Il diverso approccio alla narrativa richiederebbe un paragrafo a sé, se non addirittura un articolo, mi dilungherò qui nelle note, per vostra somma felicità.
Sono abbastanza convinto che una narrativa troppo complessa e stratificata possa inficiare il senso di agency e di “ruolo” che il giocatore sente sul mondo. Per esempio una narrativa come quella di Pillars of Eternity è troppo complessa, stratificata, episodica e il giocatore tende a scordarsela, soprattutto quando si perde in quest secondarie e nella risoluzione dei problemi personali dei membri del party. D’altro canto una trama chiara e semplice (ma non per questo meno profonda) come quella di Dragon Age: Origins riesce a non far sentire smarrito il giocatore perché il suo obbiettivo è sempre preciso dall’inizio alla fine del gioco.
Inoltre, se si sceglie la struttura dell’open world questa differenza si fa sentire ancora più marcata.
Questi sono i principali problemi, per me, in un videogioco di ruolo open world:
Conflitto tra urgenza narrativa e libertà esplorativa
Se la storia impone continuamente obiettivi urgenti o situazioni di crisi immediate ("salva tua figlia!", "ferma l'imminente invasione!"), il giocatore è psicologicamente spinto a seguire il sentiero narrativo imposto, rinunciando a esplorare liberamente. Questo genera una dissonanza ludonarrativa molto marcata: il giocatore che esplora lentamente un mondo mentre, teoricamente, dovrebbe correre a salvare qualcuno, spezza l’immersione e crea frustrazione.Sovraccarico cognitivo e perdita di focalizzazione
Una narrativa molto articolata, divisa in più trame parallele, missioni secondarie, personaggi, fazioni, e intrighi politici (come accade in The Witcher 3 o Pillars of Eternity), obbliga il giocatore a tenere traccia di troppe informazioni contemporaneamente. Quando l’attenzione del giocatore è così divisa, la sua capacità di scegliere liberamente si riduce perché è sempre condizionato dalla necessità di ricordare il contesto narrativo, anziché agire spontaneamente secondo il ruolo che ha deciso di interpretare.Prevalenza della sceneggiatura sul gameplay emergente
La narrativa densa e dettagliata inevitabilmente comporta una scrittura rigida che deve essere preservata. Le scelte dei giocatori quindi non possono divergere troppo dalle decisioni già previste dagli autori, riducendo di fatto l’agency. In giochi open world profondamente ruolistici come Morrowind o Kenshi, invece, la narrativa è volutamente essenziale e spesso emergente (generata dal giocatore stesso), e questo rende l’interazione con il mondo più spontanea e meno vincolata a binari predefiniti.Poca valorizzazione delle scelte individuali
Quando la storia è troppo dominante, le decisioni del giocatore rischiano di essere ridotte a variazioni minime o "cosmetiche". Scelte che sembrano importanti a livello morale o personale potrebbero risultare ininfluenti nel quadro narrativo complessivo, togliendo la sensazione che le proprie azioni abbiano un peso reale nel mondo.
Sono molto d’accordo con questa visioni del videogioco (di ruolo in questo caso), alla fine il deisgner mette dei limiti al suo gioco e quindi, potremmo dire, che ti guida sempre, la libertà è solo un’illusione. Credo che la sua bravura (del designer), secondo me, stia proprio nel non riuscire a farti vedere questi limiti e farti sentire di avere pieno controllo sul mondo di gioco.
Secondo me in parte fallita dal fatto che si è nascosto ramificazioni della narrazione dietro abilità legate a tiri di dado casuali.
Lo so che avevamo escluso i JRPG proprio a inizio articolo, ma mi serviva citare un FF per farvi un esempio.
Capisco che si potrebbe fare l’obiezione “ma non è la stessa cosa con Shepard in Mass Effect?” La risposta è: no! In Mass Effect 2 è più "gioco di ruolo" di The Witcher 3 non perché ti lascia creare un personaggio da zero (Shepard è comunque un protagonista predefinito, ma già il fatto che se ne possa decidere il sesso lascia spazio a diverse interpretazioni), ma perché ti dà maggior controllo sulla sua caratterizzazione morale, relazionale e strategica.
In particolare:
In Mass Effect 2 puoi costruire l’identità morale di Shepard: puoi interpretarlo come un eroe idealista (Paragon) o un pragmatico spietato (Renegade), o stare in mezzo. Questo non è solo cosmetico: influenza il modo in cui altri personaggi ti vedono, i risultati dei dialoghi e la sopravvivenza dei tuoi compagni.
Le tue scelte accumulano punti che sbloccano opzioni di dialogo diverse (interruzioni Paragon o Renegade) e determinano eventi chiave, come chi vive o muore nella missione finale (Suicide Mission).
Inoltre, anche a livello di gameplay puoi plasmare la squadra e le sue dinamiche scegliendo chi reclutare, chi supportare, chi ignorare.
In The Witcher 3, invece:
Geralt è già Geralt: ha una personalità, un passato, relazioni predefinite. Puoi scegliere come sfumare certi tratti (più compassionevole o più distaccato), ma non puoi realmente cambiarlo né reinventarlo.
Le scelte che compi influenzano il mondo narrativo (es. il destino di Ciri, delle guerre), ma non trasformano l’identità del tuo personaggio.
La maggior parte delle scelte morali sono all'interno della cornice "cosa fa Geralt?", non "chi è Geralt?".
Quindi il punto è:
In Mass Effect 2 modelli il carattere di Shepard e decidi attivamente il suo codice morale e il modo in cui si relaziona agli altri.
In The Witcher 3 interpreti un personaggio già scritto, scegliendo più come reagisce in certe situazioni, ma senza poter ridefinirlo alla radice.