The Legend of Zelda: Breath of the Wild
Metafora della fanciullezza e galleria d'arte.
(Questo post/articolo/pezzo vuole essere un punto di riferimento per tutte le volte che rimanderò a Breath of the Wild)
Il videogioco per me è la trasposizione su hardware di quella potenza metaforica tipica dei bambini: quando il campetto dell’oratorio diventa S. Siro, e il giardinetto dietro casa si trasforma nella foresta incantata, quando la spiaggia ricorda il covo dei pirati e di Davy Jones.
Il gioco del far finta divenuto realtà grazie alle menti geniali di alcuni autori. Se da piccoli si faceva finta di essere: guerrieri, dinosauri, animali, pirati, soldati, elfi, supereroi e molti altri, oggi questa possibilità sta diventando sempre più realtà.
D’altronde è sempre stata la filosofia di Miyamoto la ricerca dello sguardo del bambino in un adulto. Non a caso, per me, The Legend of Zelda: Breath of the Wild è il miglior gioco degli ultimi anni. Avventura totalizzante: le prime venti-trenta ore sono totalmente immersive. Tutto ha un significato nel mondo apocalittico di Hyrule, tutto rimanda ad altro, a storie, a suggestioni, a miti e leggende.
Persino il movimento di Link è studiato per farci immergere in questa favolosa avventura. Siamo completamente persi nel gioco perché, ci rendiamo conto, siamo costantemente dentro la mente di autori la cui filosofia è, appunto, quella di farci tornare dei bambini, ma con una consapevolezza adulta.
Quando Miyamoto parlava di equilibrio tra densità e rarefazione, ho sempre fatto fatica a capire cosa intendesse. BotW sembra sviluppato di proposito per esplicitare questa teoria di creazione di mondi. In un mondo rarefatto, in cui spesso cavalcheremo soli senza percepire nessun altro essere vivente nel raggio di centinaia di metri, la densità è data dalla maestria con cui la topografia di Hyrule è costruita. Nonostante la sua desolazione, le lande in rovina sono piene di storie e di rimandi a ricordi. Le rovine di una stalla raccontano una storia, la carcassa di un balena parlano di tempi andati. Nintendo, con BotW, ci ha insegnato che per rendere denso un universo videoludico non servono indicatori ad insozzare la mappa, non servono centinaia di missioni secondarie mangia tempo, non serve riempire il mondo di attività e nemici, ma basta un’allusione ad altro. Alludere a qualcosa attraverso il racconto ambientale è ciò che ha reso BotW il miglior open world di sempre.
(Visto che nel sottotitolo parlavo di galleria d’arte, beccatevi, quindi, un po’ di screenshots, sperando che fungano anche da tesi.)
In questi giorni ho deciso di giocarlo per la terza volta (ma per la prima volta in lingua originale), è pura poesia.