Sul mio pensiero: completismo e impossibilità
(forse, una seconda parte di tante)
“Il rimorso per un determinato fatto -non- (questo “non” lo aggiungo io) commesso, che non è pentimento finito per quel fatto, ma il terrore per la propria vita distrutta nell’irrevocabile passato, per cui uno si sente vivo ancora e impotente di fronte al futuro, è il cruccio infinito che rode il cuore”
Carlo Michelstaedter in “La Persuasione e la Rettorica”.
La tendenza al dover esperire tutto è ciò che mi appartiene. Vivere con l'ansia del completismo (sia esso videoludico, cinematografico o umanistico in generale) è quello che mi accompagna da anni. Mi rendo conto dell'impossibilità della cosa, è un infinito che tende all'infinito, e si propaga pure nel passato, avviluppandosi ai rimorsi del tempo perso (ammazzato) in cose futili quando avrei potuto, invece, recuperare. Gli insegnamenti del maestro Linji “taglia la testa al budda”, “non fare nulla” e “non cercare nulla” sono quelli verso cui protendo. Io finisco con me, quando muoio io muore il mio dio, muore tutto quello che mi circonda. Non vi è più nulla e tanto meno ci saranno tutte le opere che non ho esperito, ma allora perché continuo a cercare?
Sono un pendolo che oscilla tra la noia e l'inadeguatezza di non sapere. Socrate diceva “so di non sapere” come fosse un mantra, per foraggiare la sua stessa curiosità, per tendere sempre verso la conoscenza, per millantare umiltà, ma io ci vedo tutta la mia finitezza. Non finirò mai nulla, e tutto finirà con me. Come possiamo completare noi stessi?
Il mio backlog di cose da fare, da vedere, da giocare, da leggere aumenta sempre di più. Devo accettare che sono un'infinità di incompletezze. Sono solo io. A me devo tornare.
“Indifferente è per me il punto da cui devo prendere le mosse; là infatti, nuovamente dovrò fare ritorno.” Parmenide.
Devo imparare a fermarmi, il Samsara è un incubo di rimandi. Se torno e non so di tornare non potrò mai completare. Anche dovessi accettare questo ritorno ipotetico, non ne avrei ricordo, e la tabula rasa delle mie esperienze sarebbe una benedizione nella maledizione. Ma se non mi è concesso poter percepire la ciclicità degli eventi allora quella ciclicità per me non esiste. E nel nuovo ciclo, che forse è già questo, sarò sempre qui a tendere al completismo dell'umana opera.
Una stella distante, la meno luminosa nella notte, che cerca di illuminare tutto il creato: questo siamo.