Lettore Modello e Critica Videoludica: Soggettività vs. Oggettivismo nel Game Design
Il Lettore Modello di Eco: entità testuale, non target di mercato
Umberto Eco definisce il lettore modello come un lettore immaginario costruito dal testo stesso, dotato delle competenze interpretative necessarie per cooperare alla generazione di senso. In altre parole, ogni opera letteraria (o testo in generale) incorpora una sorta di destinatario ideale che saprà cogliere e seguire le “istruzioni” interpretative offerte dal testo. Importante è chiarire che il lettore modello non coincide con un target demografico o psicografico di pubblico. Come sintetizzato nei suoi appunti, Eco sottolinea esplicitamente che «il lettore modello non corrisponde al “target”», poiché un target di mercato indica solo un gruppo di pubblico passivo, “con un basso grado di collaborazione che attende di essere colpito dal messaggio”. Il lettore modello, al contrario, è una figura attiva e cooperante: non è un semplice utente medio previsto dal marketing, ma una strategia testuale che predispone un insieme di condizioni e competenze perché l’opera possa essere compresa in modo profondo.
Eco chiarisce anche che il lettore modello non è colui che fa una sola interpretazione “giusta” del testo. Anzi, «un testo può prevedere un lettore modello che può fare infinite congetture». Ciò significa che l’autore modello (l’immagine di autore implicita nel testo) non impone un’unica interpretazione univoca, ma invita il lettore modello a esplorare molteplici significati possibili all’interno di certi limiti di coerenza. Ad esempio, un lettore modello di una fiaba accetta di “giocare” secondo le regole finzionali proposte: Eco osserva che «ci sono determinate regole nel gioco, e il Lettore Modello è qualcuno desideroso di giocare a questo gioco» – riferendosi alle convenzioni narrative che il lettore ideale accetta (come credere a lupi parlanti in una fiaba) per cooperare con il testo. In sintesi, il lettore modello è l’insieme di predisposizioni interpretative richieste dal testo, non una categoria empirica di lettori predefiniti. Questo concetto, squisitamente teorico ed ermeneutico, avrà implicazioni importanti se trasferito al medium videoludico, dove spesso si confonde l’utente ideale interno all’opera con un generico pubblico di riferimento commerciale.
Interpretazione aperta e ruolo attivo del lettore nell’opera
La teoria di Eco si inserisce nella concezione dell’opera aperta, elaborata già nel suo saggio Opera aperta (1962). Un’opera aperta è un testo che ammette interpretazioni molteplici da parte dei fruitori, anziché condurre tutti i lettori a un’unica interpretazione prefissata. Eco, influenzato dal suo maestro Luigi Pareyson, ritiene che «la stessa opera d’arte […] non è mai legata ad un significato unico e permanente ma abbisogna di una continua integrazione interpretativa sia dei critici che del comune utente». Di conseguenza, il valore e il senso di un’opera nascono dall’incontro tra il testo e le interpretazioni dei lettori nel tempo, in un processo aperto.
In Lector in fabula (1979), dove approfondisce il ruolo del lettore, Eco afferma che un testo è una “macchina pigra”: esso richiede la cooperazione attiva di un interprete per funzionare pienamente. «Un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare», scrive Eco, poiché la sua “sorte interpretativa fa parte del proprio meccanismo generativo”. Il significato non è dunque un oggetto fisso “dentro” il gioco o il libro, da estrarre in modo meccanico; invece, emerge attraverso un dialogo tra l’autore e il lettore. Tra l’autore e il lettore si forma una cooperazione testuale, un accordo implicito per cui l’autore segue una certa strategia (modellando il testo per un certo lettore modello) e il lettore reale mette in gioco le proprie strategie interpretative. In questo patto narrativo, il lettore modello funge da mediatore: è l’immagine di quell’interprete ideale disposto a seguire il gioco dell’opera secondo le regole che essa stessa stabilisce. Eco enfatizza che l’interpretazione può generare una molteplicità di significati coerenti, riflesso diretto della ricchezza di un testo aperto. Se un’opera riesce a suscitare tante letture quanti sono i lettori empirici, mantenendo però una coerenza generale, Eco parla di “condizione di felicità” del testo. In altre parole, la polifonia di interpretazioni possibili è considerata un segno di vitalità estetica, non un errore da evitare. Questa visione intrinsecamente soggettiva dell’esperienza estetica (dove ogni fruitore coopera alla creazione del senso) è opposta a ogni pretesa di oggettività assoluta dell’opera.
Va anche detto che Eco distingue tra interpretazioni sensate e interpretazioni del tutto aberranti: non tutte le letture sono illimitate in modo anarchico. Esistono delle “regole del gioco” imposte dal testo che delimitano il campo delle interpretazioni accettabili. Il lettore modello, infatti, è “d’accordo nel rispettare le regole” create dal testo. Tuttavia, entro questi confini elastici, c’è spazio per una molteplicità di significati e per contributi soggettivi del lettore. L’opera non è un monologo dell’autore ma una sorta di dialogo potenziale con ogni lettore: solo attraverso questo dialogo l’opera compie veramente la propria funzione estetica. Questa filosofia critica – che esalta la cooperazione del destinatario e la pluralità interpretativa – può essere applicata proficuamente anche ai videogiochi, considerati anch’essi come testi o opere con cui il giocatore instaura un rapporto interpretativo.
Dal lettore modello al giocatore modello nei videogiochi
Trasponendo i concetti di Eco al medium videoludico, potremmo parlare di un “giocatore modello”: il profilo di giocatore ideale presupposto dal gioco attraverso le sue meccaniche, la narrativa e il livello di sfida. Un videogioco, analogamente a un romanzo, implica una cooperazione da parte del fruitore: chi gioca deve accettare le regole del gioco (gameplay, controlli, logica del mondo di gioco) per vivere l’esperienza proposta. In termini ecoiani, il gioco costruisce al suo interno un giocatore modello “desideroso di giocare a questo gioco” secondo le regole date. Ad esempio, un puzzle-game implicherà un giocatore modello disposto a pensare logicamente; un gioco di ruolo colto presupporrà un giocatore attento ai testi e all’esplorazione; un survival horror immaginerà un giocatore modello pronto a farsi spaventare e a gestire risorse limitate, e così via. Questo giocatore modello videoludico è il partner interpretativo ideale che il game design chiama in causa.
È fondamentale non confondere questo concetto con il target di mercato o con il genere di gamer a cui il gioco si rivolge nel marketing. Mentre il target (es. “hardcore gamer”, “casual gamer”, ecc.) è una categoria empirica di pubblico con preferenze statisticamente rilevate, il giocatore modello è una figura strutturale all’interno del gioco stesso. Egli incarna le competenze e le disposizioni che il gioco richiede per essere compreso e apprezzato pienamente. Ad esempio, il giocatore modello di Dark Souls non è semplicemente “il giocatore hardcore” inteso come nicchia di mercato, ma è quell’utente ideale che accetta di buon grado un livello di difficoltà elevato, che apprende dai fallimenti e che è disposto ad esplorare un lore narrativo oscuro e frammentato. Questo non coincide automaticamente con tutti i giocatori cosiddetti hardcore, né esclude a priori giocatori esterni a quella nicchia. È piuttosto un insieme di atteggiamenti interpretativi: pazienza, perseveranza, curiosità nell’indagare l’ambiente di gioco, volontà di mettersi alla prova senza aiuti espliciti.
Tuttavia, nel dibattito videoludico capita che si usi impropriamente l’idea di un destinatario ideale per rivendicare l’oggettiva bontà di un design tarato su un certo pubblico. Ad esempio, un game designer potrebbe affermare che Dark Souls “funziona” perché ha puntato esplicitamente ai giocatori hardcore, i quali in effetti lo apprezzano, indicando ciò come prova di un design oggettivamente efficace (magari secondo parametri formali tipo il framework MDA di Meccaniche-Dinamiche-Estetica). Una simile argomentazione è stata riassunta così: Dark Souls “targeted a very specific audience: hardcore gamers who want a hardcore experience” e ha costruito ogni elemento di conseguenza. In quest’ottica, se il gioco soddisfa questa platea “ideale” (hardcore) allora il suo valore sarebbe confermato in modo quasi oggettivo, perché ha raggiunto lo scopo progettuale dichiarato. Si tratta, però, di una semplificazione che equivoca la nozione di lettore/giocatore modello di Eco e rischia di ridurre la critica estetica a un controllo qualità industriale.
Secondo Eco, come abbiamo visto, il lettore modello non è una categoria rigida di persone reali, ma un ruolo che chiunque può assumere nel momento in cui ingaggia l’opera alle sue condizioni. Ciò significa che un videogioco può certamente avere in mente un profilo di giocatore preferenziale, ma l’esperienza estetica offerta non è limitata esclusivamente a quel profilo. Un giocatore empirico (cioè una persona reale che gioca) può non corrispondere perfettamente al modello previsto e tuttavia trovare ugualmente significato e valore nell’opera. Eco stesso nota che il lettore empirico “non sempre corrisponde al lettore modello” previsto dal testo, e questa discrepanza non invalida l’opera, bensì fa parte della dinamica interpretativa reale.
La poetica della difficoltà in Dark Souls e Ikaruga: oltre il target degli hardcore gamer
Per dimostrare come il valore estetico di un videogioco trascenda la semplice aderenza a un target di pubblico, consideriamo la difficoltà punitiva in giochi come Dark Souls (FromSoftware) o Ikaruga (Treasure). Superficialmente, entrambi potrebbero sembrare progettati “per hardcore gamer” amanti delle sfide estreme. Ma se ci limitassimo a questo, ridurremmo tali opere a prodotti calibrati su un gusto di nicchia, mancando di coglierne la portata artistica e il significato che possono generare anche in giocatori fuori da quella cerchia.
In Dark Souls, la difficoltà elevata non è solo un parametro ludico per soddisfare i giocatori più tenaci, ma è parte integrante della poetica e della tematica del gioco. L’opera comunica attraverso il suo livello di sfida un messaggio preciso: quello di un mondo ostile, colmo di sofferenza inevitabile, in cui la perseveranza e la condivisione dell’esperienza sono centrali. Dark Souls non è “difficile tanto per il gusto di esserlo”: la difficoltà è lì anche per comunicare il suo tema più grande, ovvero la sofferenza inevitabile e condivisa. Il gioco immerge il giocatore in un universo narrativo decadente, dove ogni progresso richiede di morire e riprovare molte volte, e dove si trovano i segni (macchie di sangue, spettri, messaggi) della morte di altri giocatori. Questa scelta di design reinforza l’idea che, mentre tu lotti, altri lottano insieme a te nello stesso mondo. La condizione umana rappresentata in Dark Souls è quella di un ciclo di sofferenza in cui però esiste una sorta di solidarietà indiretta: siamo tutti “non morti” che combattono, cadono e si rialzano. Un giocatore non tipicamente hardcore potrebbe apprezzare Dark Souls proprio per questa dimensione tematica ed emotiva: può leggervi una metafora della resilienza, una suggestione esistenziale sul fallimento e la perseveranza, o ancora godere della atmosfera e della narrazione implicita che si dipana attraverso descrizioni di oggetti e architetture del mondo di gioco. Sono tutti significati colti attraverso una lettura estetica soggettiva, che va oltre la semplice constatazione “il gioco è difficile quindi piace a chi ama le sfide”. Piace – ed emoziona – anche per quello che la difficoltà significa nel contesto dell’opera.
Allo stesso modo, Ikaruga, celebre shoot ’em up a scorrimento verticale, è noto per la sua difficoltà brutale e la meccanica binaria di assorbimento/proiezione dei proiettili (polarità bianca e nera). Di primo acchito, solo un appassionato di giochi arcade molto impegnativi potrebbe esserne il “target”. Eppure, diversi giocatori (e critici) hanno riconosciuto in Ikaruga una profondità simbolica e artistica insospettabile legata alla sua difficoltà. L’intero gioco è costruito intorno al concetto di equilibrio tra due forze opposte (lo Yin e lo Yang della filosofia orientale) e richiede al giocatore di raggiungere un perfetto bilanciamento nell’alternare le due polarità per sopravvivere. Non c’è modo di barare o semplificare: “il giocatore può provarci in ogni modo, ma non avrà successo finché non troverà l’equilibrio. Non c’è altra via” – questa rigorosa meccanica incarna in forma interattiva la stessa filosofia taoista dell’armonizzazione degli opposti. Il risultato è che Ikaruga, attraverso la sua difficoltà elevatissima, comunica un significato: rende tangibile al giocatore un percorso di apprendistato spirituale, quasi ascetico, dove solo accettando di morire e riprovare innumerevoli volte si può raggiungere la “illuminazione” del gameplay perfetto. Non a caso, è stato notato come il ciclo di morte e reincarnazione del giocatore in Ikaruga riecheggi i concetti di reincarnazione delle filosofie orientali, dando alla difficoltà un preciso merito artistico. In un’analisi, si è definito “sbalorditivo” il rendersi conto che la difficoltà di Ikaruga abbia un valore poetico: il gioco eleva il classico trial and error a metafora della perfezione spirituale da conseguire attraverso la sofferenza e la perseveranza. È evidente che questa chiave di lettura può essere colta da chiunque si approcci al gioco con sensibilità, non solo dai super-giocatori in cerca di punteggi. Anzi, un giocatore magari meno avvezzo ai bullet hell potrebbe rimanere affascinato da Ikaruga per la sua eleganza tematica – la fusione di estetica orientale, musica, gameplay e significato – al di là della frustrazione iniziale.
Questi esempi dimostrano che il valore estetico di un gioco non si esaurisce nella sua adeguatezza a un pubblico di riferimento. Dark Souls e Ikaruga funzionano non solo perché piacciono ai loro fan “duri e puri”, ma perché offrono esperienze polisemiche, aperte a più livelli di fruizione. La difficoltà estrema, lungi dall’essere un semplice requisito richiesto dal target hardcore, diventa linguaggio artistico. E come ogni linguaggio artistico, può essere interpretato e apprezzato in modi differenti a seconda del giocatore. Qui vediamo in atto quel processo descritto da Eco: l’opera propone un suo lettore/giocatore modello (disposto a giocare secondo certe regole), ma poi il senso finale nasce dall’incontro con i giocatori reali, che possono scoprirvi significati imprevisti o personali (purché coerenti con le premesse del gioco). Un giocatore non hardcore che trovi poesia nella difficoltà ha semplicemente assunto, per il tempo di gioco, il ruolo di giocatore modello seguendo le istruzioni dell’opera, ma portando anche il proprio bagaglio esperienziale nell’interpretazione. Questo arricchisce l’opera al di là di qualunque parametro oggettivo di design.
Contro l’uso oggettivista del lettore modello: l’apertura dell’opera come valore
Alla luce di quanto discusso, risulta chiaro che impiegare la teoria del lettore modello per giustificare una visione oggettivista del game design è una forzatura concettuale. L’idea che “se il destinatario ideale gradisce l’opera, allora essa funziona oggettivamente” fraintende Eco su più livelli. In primo luogo, fa sembrare il lettore modello una sorta di benchmark esterno e statico, quando invece è parte integrante del testo e della sua strategia espressiva. Il successo di un’opera nel colpire il proprio pubblico previsto non è un parametro oggettivo assoluto, ma solo una verifica contingente (una condizione di felicità nel senso di Eco, forse) che indica sintonia tra le intenzioni dell’autore modello e le risposte di alcuni lettori empirici. Ma Eco ci mette in guardia: anche quando c’è sintonia, il testo davvero riuscito non limita il suo significato a una singola corrispondenza intenzione->effetto. Al contrario, l’opera rimane aperta, offrendo interpretazioni potenzialmente molteplici e permettendo a lettori diversi (magari non previsti in origine) di cooperare alla generazione di nuovi sensi.
Eco insiste molto sulla pluralità e sulla cooperazione. Se un game designer invoca il lettore (o giocatore) modello per dire: “Vedi? Ho fatto questo gioco per i pro-gamer e infatti piace ai pro-gamer, dunque il design è oggettivamente valido”, sta di fatto riducendo l’opera a un testo chiuso, in cui ogni elemento ha uno scopo univoco deciso a priori e valutabile solo rispetto a quel pubblico standard. Ma un testo chiuso in senso ecoiano è un’opera assai povera: “conduce il lettore ad una sola interpretazione” e non lo sfida a cooperare creativamente. È il caso di quei prodotti di intrattenimento totalmente formulati su schemi pre-testati, che offrono esattamente ciò che il pubblico di riferimento si aspetta, senza ambiguità né sorpresa. In ambito videoludico, potremmo pensare a certi sequel realizzati con “fanservice” calcolato, o a game design che seguono pedissequamente le convenzioni di genere per soddisfare un target, rischiando pochissimo. Operazioni del genere possono anche avere successo di pubblico, ma si attestano su un terreno di poca rilevanza artistica, proprio perché eliminano l’apporto interpretativo del giocatore: non gli chiedono di essere lettore/giocatore modello attivo, ma lo trattano da consumatore target passivo “in attesa di essere colpito dal messaggio”. È la qualità dell’esperienza a rimetterci, sostituita da un’efficienza quasi meccanica nel soddisfare criteri prestabiliti.
Al contrario, un gioco come Dark Souls dimostra che si può progettare pensando a un certo pubblico (gli amanti delle sfide), ma al contempo lasciare l’opera aperta a molteplici livelli di lettura. Eco parlerebbe qui di un testo con strategie flessibili, che consente “tante interpretazioni quanti sono i lettori empirici” pur restando coerente. Dark Souls può essere letto come sfida tecnica pura dal giocatore hardcore, ma anche come esperienza esistenziale da un giocatore più interessato alla lore, o come oggetto di analisi da parte di un critico. Tutte queste letture coesistono e, idealmente, si rinforzano a vicenda evidenziando la ricchezza dell’opera. Eco infatti suggerisce che in un testo aperto “per quante interpretazioni siano possibili, l’una riecheggi l’altra così che non si escludano ma anzi si rinforzino a vicenda”. È proprio ciò che accade nei migliori videogiochi: la componente ludica, quella narrativa, quella estetico-simbolica, parlano a pubblici diversi e ciascun pubblico può scoprirne aspetti nuovi, in un dialogo continuo.
In conclusione, la teoria del lettore modello di Umberto Eco rafforza un approccio soggettivo alla critica estetica videoludica, invitandoci a valutare i giochi non in base a presunti criteri oggettivi universali, ma in base alla relazione che essi instaurano con i giocatori e ai molteplici significati che da tale relazione scaturiscono. Il valore di un videogioco non sta soltanto nelle sue meccaniche ben congegnate secondo manuale, ma nell’esperienza interpretativa che offre – esperienza che varia da persona a persona, senza per questo decadere in arbitrarietà completa, ma arricchendo il gioco di risonanze nuove. Usare Eco per rivendicare l’“oggettività” di un design significa tradirne il pensiero: Eco ci insegna invece a vedere l’opera (sia essa un romanzo o un videogioco) come un sistema di possibilità, che il soggetto realizza e completa con la propria sensibilità. In ambito videoludico, questo approccio apre la porta a una critica estetica più profonda, che considera i videogiochi come forme espressive a interpretazione cooperativa, piuttosto che come semplici prodotti da validare su criteri tecnici o sul gradimento di una nicchia. La nozione di giocatore modello ci ricorda che ogni partita è un atto di lettura unico: è nell’incontro irripetibile tra un certo giocatore e il mondo di gioco che fiorisce il significato. E quel significato non è mai del tutto oggettivo né del tutto arbitrario, ma nasce dalla dialettica tra le intenzioni inscritte nel design e la libera risposta del giocatore – esattamente come Eco aveva profetizzato con il suo lettore modello e l’opera aperta.
Fonti:
Le citazioni e i riferimenti teorici provengono dagli scritti di Umberto Eco, in particolare Lector in fabula (1979) e Opera aperta (1962), nonché da analisi critiche su Dark Souls e Ikaruga per quanto riguarda l’interpretazione della difficoltà in chiave estetica. In definitiva, la prospettiva echiana incoraggia a vedere il game design come dialogo aperto con il giocatore, e la critica videoludica come analisi delle molteplici letture possibili, anziché ricerca di un singolo metro di giudizio universale.