Cos’è la felicità? Non lo so… Probabilmente è un punto nelle nostre vite, un’occasione a cui ritorniamo costantemente con i nostri ricordi, tutto il resto del nostro vissuto è solo commento a quell’evento. Non è detto che avremo solo un’occasione nella nostra vita (la trombetta blu di Echiana memoria, vi rimando in questo caso al mio video sul Pendolo di Foucault). Improvvisamente ce ne rendiamo conto quando ne stiamo vivendo una, è come se potessimo scorgere in un punto e in un tempo un Aleph e, scorgendolo, rimiriamo noi stessi e fermiamo il mondo, l’universo e il tempo stesso. Quell’evento, esteso all’infinito nel momento in cui lo viviamo, ma improvvisamente finito una volta terminato: un’eternità di vetro.
Forse sarebbe più opportuno parlare di contentezza e soddisfazione nella vita, poiché una persona sempre felice è, forse, solo un pazzo, ma non cavilliamo sui termini.
Il problema è che non c’è nulla da cercare, come ci ricorda il monaco Linji. Ma allora perché affannarsi per tutta la vita a ricercare quell’occasione che ci è capitata, che non abbiamo cercato, che è arrivata serendipiticamente e inaspettata? Si è saggi, forse, solo nel momento della morte, quando capiamo che realmente è tutto qui, quando la paura della morte è ormai tangibile e le illusioni di inutili metafisiche astratte cadono a pezzi. L’accettazione dell’insensatezza della vita e, quindi, la fine della ricerca di un senso potrebbe da una parte renderci incapaci di agire, travolti dalle vertigini della nienteità, d’altra parte però ci renderebbe liberi… chissà se poi quella sensazione di vertigine non è in realtà un’euforica consapevolezza che ci terrorizza.
Ma a questo punto sorge un altro problema, quello della libertà. Se siamo veramente liberi, allora crediamo anche di essere supremi decisori delle nostre azioni, ma le nostre azioni sono soggette alla realtà fisica del mondo. Non poteva andare diversamente, non esiste qualcosa che possa portarci indietro nel tempo permettendoci di fare scelte diverse. Questa consapevolezza potrebbe liberarci, anche, dal cruccio dei rimorsi e dalla ricerca del tempo perduto, poiché mai tornerà indietro, ma, soprattutto, mai sarebbe potuto andare diversamente.
Forse alla base di una vita soddisfacente c’è la necessità di abbassare le proprie aspettative, un certo pessimismo di fondo che, però, non ci renda impreparati e quindi frustrati di fronte agli imprevisti, ai dolori e alle perdite.
La felicità è, forse, una consapevolezza della nostra finitezza e insensatezza, un crogiolo di vacuità. È la comprensione di non essere soggetti che modificano la realtà perché ne facciamo parte; ed è forse più giusto dire che è la realtà stessa che assoggetta noi e ci muove. Tuttavia, siamo maledetti a percepirci come decisori finali, come soggetti che modificano la realtà, paradossalmente intrappolati nelle nostre illusioni anche nel momento stesso in cui ne diventiamo consapevoli. Siamo prigionieri del logos, della parola, più precisamente dell’interpretazione del mondo. Siamo esseri simbolici, destinati a una “semiosi illimitata”. Non riusciremo mai a smettere di interpretare ciò che ci sta intorno, fallendo sempre miseramente perché la realtà è miope e l’introspezione di fatto impossibile.
Forse sto facendo confusione… forse il momento di massima felicità è stata la nostra età infantile, perché inconsapevoli e perché ogni novità era una scoperta e l’occasione poteva ritrovarsi in ogni momento. Forse è per questo che le mie opere estetiche preferite sono quelle che riescono a restituire al lettore (inteso generalmente) gli occhi del bambino, facendolo tornare a quel mondo fatto di giochi metaforici che era l’infanzia.
È ovviamente impossibile relegare la felicità a una formula o a dei rimedi. Continuo quindi con il mio divagare… Siamo incapaci di introspezione perché non siamo altro che superfici, ovvero quelle maschere che indossiamo quotidianamente a seconda del contesto sociale. Non c’è un vero "io" dietro quella maschera; io sono la totalità di quelle maschere, siamo “superfici su superfici”, impossibilitati ad andare a fondo e a venirne a capo. Una volta compresa questa nostra vuotezza, o meglio dire vacuità (per usare un termine tipico del buddismo zen), sarà più facile accettare l’altro, inteso in generale: cioè accettare che il tavolo non è differente da me, perché entrambi siamo la realtà, la natura, ovvero la physis, la fisica.
Alcuni monaci, santi e saggi hanno ricercato la felicità nella solitudine. Uscendo completamente dalla società, speravano, fallendo, di riuscire a fuggire dal linguaggio. Ma la fuga è impossibile: come dicevo prima, siamo intrappolati in un’interpretazione del mondo costante, che ci siano o meno altri esseri parlanti intorno a noi. Siamo costruiti affinché tutto sia segno. Quindi una vita ascetica non è una risposta valida per tutti. Siamo individualità che non si percepiscono come tali; ognuno di noi può trovare il suo angolo di mondo là, da qualche parte, nell’incompiuto.
Le nostre vite sono come finestre, squarci sulla realtà che sbircia se stessa. Magari potremmo sbirciare e fare amicizia (in senso lato) con chi ha tenuto la sua finestra abbastanza aperta. Essere accolti nella vacuità dell’altro o renderci accoglienti con la nostra nienteità affinché insieme si possa porre fine a tutte queste malinconie. Forse la risposta sta proprio nell'altro, o forse no. L'altro potrebbe portare attaccamento, affezione e infine dolore.
Potrà mai l'umano definirsi felice? Guardandosi allo specchio nelle notti più buie, quando l’Essere bussa alla porta e fuori infuria la tempesta dell’insensatezza, guardarsi consapevole e capire che veramente non c'è nulla ed è tutto qui. E, soprattutto, che una volta capito questo, possa smettere di cercare di porre rimedio all’incompiuto? Chi ci riesce non lo testimonia poiché asceso oltre il logos, e quindi non è mai esistito. Credo, infatti, che la felicità sia impossibile o propria degli stolti e dei bambini. L'importante è l'accettazione di questa nostra maledizione, l’importante è prendersi meno sul serio.
Bisognerebbe fare come Steve Zissou e aspettare fuori mentre proiettano la nostra vita.
Banalmente, per vivere bene, bisognerebbe assumere la consapevolezza del moribondo e capire che tutto è qui e che tutto è andato esattamente come doveva andare. Non ci devono essere rimorsi e rimpianti perché era impossibile che andasse diversamente. Non c’è dolore e perdita perché non c’era nulla da perdere. Non c’è uno scopo perché nulla ha senso e non c’era qualcosa da trovare perché non c’era nulla da cercare.