C'è qualcosa di affascinante e malinconico nella solitudine di Armored Core VI. Forse è una nostalgia verso gli anime con i robottoni o la mistica del cavaliere di metallo contro le forze del male. Cupi e schiacciati nel nostro abitacolo sfrecciamo sulle rovine di Rubicon, abbiamo contatti con l’altro solo attraverso le comunicazioni radio, di umani non ne vediamo, ma solo esoscheletri e robot. Le voci ci arrivano solo ovattate e metalliche. Siamo soli.
Le missioni di routine, quelle in cui dobbiamo distruggere obbiettivi o recuperare informazioni, non sono altro che banchi di prova per testare il nostro Armored Core e per potenziarlo. Il cuore del gioco è la singolar tenzone (non sempre singolar) contro i boss: cattiva, frenetica, tecnica, vivificante. C'è una sorta di onore incomunicato in questi scontri, forse un qualcosa di cavalleresco: non importerà, quindi, di chi siamo al servizio, di quale fazione o corporazione, l'importante è la vittoria, la dimostrazione del nostro valore in battaglia, a tu per tu con il nostro avversario. Relitti rugginosi, vittime di melanconie inutili che si affrontano su un pianeta morto, ucciso dall'avidità umana e dal suo disonore. Forse riporteremo la vita, là dove si è ritirata, solo attraverso la violenza dello scontro cavalleresco.
Noi non abbiamo un nome, abbiamo tante sigle e pseudonimi con cui veniamo chiamati: 621, G-13, Raven, Turista ecc ecc… siamo, quasi, inesistenti. Approdiamo nell'esistenza solo durante lo scontro feroce sul campo di battaglia. Siamo un mercenario che si rifugia nei fiumi impetuosi dello scontro. Raven ci dicono essere un nome sinonimo di libertà, di libero arbitrio; ma non esiste libertà su Rubicon, non esiste individualità. Siamo schiacciati dalle corporazioni e dalle presenze del pianeta stesso. Forse non abbiamo una vera e propria volontà. Forse a muoverci è un istinto primordiale che ci ha imprigionato nell’atavica legge del più forte, a cui dobbiamo dimostrare di essere ancora di carne pulsante e sangue bollente, non solo di freddo metallo. L'unico momento in cui siamo, in cui esistiamo come individuo, è lo scontro, la battaglia, la sfida, la giostra cavalleresca. Non è un caso se io stesso a un certo punto ho smesso di seguire la trama e i suoi intrighi, esattamente come al protagonista non mi interessava, volevo solo scendere sul campo di battaglia e misurare la mia abilità. La ragione e il torto, la giustizia e l'ingiustizia non mi interessavano più: volevo solo dimostrare il mio valore nello scontro. Volevo dimostrare la mia vitalità nella morte.
E, quindi, solo, rinchiuso in un torace di metallo, in cui l’unico contatto con l'umano è unicamente demandato a comunicazioni via radio, echi di voci metalliche ovattate, noiose, inconcludenti, insignificanti, posso avvicinarmi all'altro solo incrociando la “spada” con il mio avversario, solo sul campo di battaglia, solo attraverso la violenza del duello. Sento il sapore dell'acciaio nella bocca, il sangue pulsa nelle vene, i miei riflessi sono quelli di una bestia. Vivo nella morte. In un mondo in cui tutto sembra sempre sul punto di scomparire e tutto sembra essere giunto alla fine dei tempi, anche la mia stessa vita è al limitar della catastrofe, sull’orlo del baratro; al di là il gratificante nulla… o solo un'altra battaglia, solo un'altra guerra, e forse, poi, finalmente sarò libero.
Combatto per la libertà o perché combattendo mi sento libero?
Volerò così in alto che non mi vedranno più e, finalmente, mi confonderò con le stelle nel firmamento, sarà anche inutile per gli altri volgere lo sguardo verso il cielo, sarà impossibile trovarmi. Invisibile a chi si è sottratto alla mistica della battaglia. Piccola luce lontana, indistinguibile, esplosa al calare delle tenebre, alla fine di una stella e all'inizio dell’oscuro nulla, sarò scomparso in cerca di un altro duello: l’ultimo, quello perfetto, quello che mi donerà la morte, se avrò fortuna. Errante, nel vuoto siderale, cerco un altro scontro, mentre nel resto dell'universo imperverserà la guerra, la morte, la fine.