Il videogioco per me è una cosa intima, quasi come una preghiera che si fa da soli in silenzio in una spiritualità tutta nostra, mia, priva di divinità e dogmi. Non credo, forse sono ateo, ma ho bisogno del silenzio e della mia spiritualità. Forse dei miei riti. Il videogioco è uno di essi, per questo odio i “let’s play”, le “blind run” e tutte quelle cose tipiche del medium twitcheo o youtubico. Non mi piace vedere gli altri giocare, mi sembra come sbirciare nella loro anima. Certo anch’io ho visto qualche gameplay, ho peccato.
Guardare qualcuno che gioca su uno schermo non è, comunque, come aver guardato il tuo amico giocare ai videogiochi. Eravamo entrambi presenti nella stessa stanza, stavamo celebrando la stessa liturgia.
Il VR è la sublimazione di questa intimità. Te sei dentro un altro mondo, quasi un’esperienza extracorporea, la sperimentazione della premorte o dello stato di coma, delocazione della coscienza all’interno di un mondo virtuale… Vi sembrerò impazzito, ma la sensazione di presenza in quell’Altrove è straniante e ossimoricamente realistica. Se il mio corpo è, comunque sia, nella cameretta o nel salotto, io sono da un’altra parte, completamente immerso nella mia intimità.
Sembra di essere dentro la realtà di Palmer Eldritch e, quindi, sono in costante ricerca delle tre stigmate che mi facciano capire che quella non è la realtà. Ma cos’è reale in fondo? L’esperienza VR è un’esperienza onirica per me che non sono più in grado di sognare a causa della stanchezza (diventare adulti alla fine è svegliarsi stanchi anche dopo otto ore di sonno). Se da una parte indossare il visore è faticoso e abbastanza provante fisicamente, all’estremo opposto è estremamente rilassante, riposa il cervello e i sensi, oramai troppo allenati al reale e, quindi, annoiati. Dopo una sessione in VR mi sento fresco e rinvigorito a livello mentale.
Insomma nell’era contemporanea, per me, la realtà virtuale è una liturgia, un esercizio spirituale che si unisce al ludico per ricaricare le batterie e la propria intimità.